Guantanamo non si chiude. Ma resterà aperto per sempre?

 Il detenuto nutrito a forza rivela  le contraddizioni  del

supercarcere e del suo futuro. Morti “non utili”

Gli agenti della Cia chiamano la prigione di Guantanamo “Strawberry Fields”, i campi di fragole, perché, come nella canzone dei Beatles, i detenuti saranno lì rinchiusi “forever”, per sempre. Forever sta diventando il punto centrale del problema. La detenzione senza fine, senza processo e senza sentenza dentro le celle di massima sicurezza di Guantanamo (“Gitmo”, nella contrazione che ne fanno gli americani) è la grande contraddizione che l’Amministrazione Obama non riesce a risolvere. Nella campagna elettorale del 2008 il presidente cavalcò l’onda del cambiamento e della speranza anche grazie alla promessa di chiudere il carcere. Non l’ha fatto, restano centosessantasei detenuti. Il numero non aumenta perché il governo non tiene a ingrossarlo e ha trasformato la lista dei ricercati pericolosi per l’America in una lista di bersagli da uccidere con i droni, nelle zone tribali in Pakistan e in Yemen (ma anche altrove, per esempio in Somalia) e non da chiudere a Gitmo.

Dopo gli attacchi dell’11 settembre la creazione del carcere a Cuba fu una delle misure straordinarie per tempi straordinari adottate dall’Amministrazione Bush. Fu particolarmente odiata, anche con un sovraccarico di toni. Nel 2005 Amnesty International ruppe per la prima volta una sua regola interna che impone di non fare paragoni tra differenti abusi di diritti umani – “questo è peggio di quello” – definendo Gitmo “un gulag dei nostri tempi”. La definizione fu contestata da alcuni ex internati di veri gulag sovietici. I media per anni hanno mostrato le foto dei primi venti giorni di esistenza della prigione, quando non c’erano che reti metalliche e divise arancioni, poi abbandonate. La sua esistenza è diventata una questione divisiva – assieme a tante altre – tra la destra e la sinistra d’America. Sembrava essere scomparso dall’attenzione pubblica, come rimosso dalla psiche nazionale. Ma l’irrisolto si ripropone coattivamente. Se l’Amministrazione Obama sperava che svanisse, sta sbagliando.

Due giorni fa il New York Times ha pubblicato uno degli “op-ed” più potenti della sua storia. E’ stato un raro episodio di fuoco amico contro il presidente. Gli “op-ed” sono editoriali affidati a ospiti esterni, questo è firmato da Samir Naji al Hasan Moqbal, uno yemenita detenuto a Guantanamo da undici anni e tre mesi e alimentato a forza con un sondino inserito nel naso perché rifiuta il cibo per protesta.

Questa è la procedura raccontata da lui: “Non dimenticherò mai la prima volta che mi hanno fatto passare il sondino su per il naso. Non riesco a dire quanto è doloroso essere nutriti a forza in questo modo. Quando mi infilavano il tubo, mi veniva da rimettere. Volevo vomitare, ma non potevo. Agonia nel petto, nella gola e nello stomaco. Non avevo mai provato un dolore così prima. Non augurerei una punizione così crudele a nessuno.

Sono ancora nutrito a forza. Due volte al giorno mi legano a una sedia nella mia cella. Le mie braccia, le mie gambe e la testa sono bloccate. Non so mai quando verranno. Certe volte vengono di notte, alle 23, mentre dormo. Siamo così tanti a fare lo sciopero della fame che non c’è abbastanza personale medico qualificato per nutrire a forza tutti, così niente succede a intervalli regolari. Nutrono la gente a ciclo continuo, per non restare indietro. Durante un pasto forzato l’infermiera ha spinto il tubo per mezzo metro nel mio stomaco perché ha stava facendo le cose troppo in fretta. Ho chiamato l’interprete per chiedere al dottore se la procedura fosse corretta o no. Era così doloroso che li ho implorati di smetterla di nutrirmi. L’infermiera ha rifiutato. Mentre finivano, un po’ del “cibo” s’è versato sui miei vestiti. Ho chiesto loro di cambiarmi, ma la guardia ha rifiutato…”.

Il file personale e il caso Yemen

Non tutto quello che Moqbal scrive nel suo editoriale sul New York Times è da prendere per la verità assoluta. Lui è vago sul perché è finito nella prigione, dice di essere stato preso per caso in Pakistan dopo essere scappato nel 2001 dalle operazioni militari americane in Afghanistan, dove si era trasferito dallo Yemen per trovare un lavoro più remunerativo. Foreign Policy è andata a controllare il suo file personale, consultabile grazie a un altro progetto del New York Times che rese disponibili in maniera organizzata sul suo sito i dossier di ciascun prigioniero. Moqbal “è stato catturato assieme a un gruppo chiamato ‘la sporca trentina’, che includeva guardie personali di Osama bin Laden e un ventesimo dirottatore dell’11 settembre, mentre fuggiva dal fronte durante l’operazione Enduring Freedom”. “Il detenuto ha ricevuto addestramento base e avanzato al campo al Faruq di al Qaida. Il suo nome è stato trovato in documenti di al Qaida e ha riconosciuto di essere stato reclutato da un membro conosciuto di al Qaida, Marwan Jawan, che facilitò anche il suo arrivo in Afghanistan. Il detenuto è: ad ALTO rischio per l’America, i suoi interessi e i suoi alleati, a BASSO livello di minaccia come detenuto e di MEDIO valore come fonte d’intelligence. Ha riconosciuto di aver combattuto sul fronte nella Brigata 55, la brigata araba di Osama bin Laden, e di avere partecipato alla guerra”.

La detenzione senza fine però non sta funzionando. Rimbalzando di ragione giusta in motivo ineccepibile, per Obama s’è aperta una crisi non rimandabile. Quello che succede dentro il campo di Guantanamo è il risultato progressivo di decisioni necessarie, che portano però a uno scenario orwelliano: i 166 detenuti non possono essere rimessi in libertà perché sono considerati troppo pericolosi e a rischio di diventare recidivi, non possono però nemmeno essere abbandonati al loro sciopero della fame, di conseguenza devono essere mantenuti in vita e nutriti a forza, quindi devono essere legati gambe, braccia e testa, e intubati di sorpresa a orari imprevedibili per fiaccare la resistenza, anche di notte… Per ora Obama gode senza affanni di un capitale di consenso enorme, E’ il presidente che ha ucciso Bin Laden e ha dichiarato al fine di due guerre (in Iraq l’ha già fatto, in Afghanistan sta per farlo), ma ha ancora bisogno del campo per i prigionieri di guerra. Viene da chiedersi qaunto a lungo il suo capitale potrà sopportare altre bordate come questa del New York Times.

di Daniele Raineri   –   @DanieleRaineri

Solo gli utenti registrati possono commentare gli articoli

Per accedere all'area riservata