La filosofia della lagna

Di troppo consociativismo muore l’economia italiana, spiegò

una volta per tutte il Nobel Phelps. Oggi industriali e sindacati sono di nuovo uniti, nella richiesta deresponsabilizzante di uno stato paternalistico

La situazione non è facile: con i mercati drogati dalla politica monetaria altrui (americana o giapponese che sia), i partiti politici effettivamente continuano a baloccarsi e l’economia reale non smette di avvitarsi. E le “parti sociali”, almeno loro, reagiscono in qualche modo? Per ora burocrazie industriali e sindacali paiono tornate a saldarsi, come da solita tradizione concertativa italiana, questa volta in nome della “filosofia della lagna”. Il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, cita i “62 suicidi di imprenditori già avvenuti”, paventa “esplosioni sociali violente” e sostiene che “per far ripartire la domanda abbiamo bisogno di un governo”.

I sindacati non sono da meno: sulla scorta di difficoltà oggettive e a volte di tragedie personali – di tanto in tanto gonfiate ad arte con il concorso dei media – chiedono insistentemente al governo “risorse per la cassintegrazione”, nei talk-show si spingono a invocare una spending review finalizzata esclusivamente a rafforzare questo tipo di ammortizzatore sociale. Lo schema è per molti versi comune, in fondo paternalistico: chiedere “allo” stato, “per” gli imprenditori o “per” i lavoratori. Il pensatore australiano Robert Hughes, che nel 1993 inventò e descrisse la “cultura del piagnisteo” che pervade l’occidente, guardando all’Italia di oggi sfodererebbe forse una delle sue frasi più calzanti: “L’atteggiamento infantile è un modo regressivo di far fronte allo stress della vita in comunità: non calpestarmi, sono fragile”. Se qualcuno lo ritiene un eccesso di sociologismo, allora conviene riprendersi una delle principali ricerche del premio Nobel per l’Economia americano, Edmund Phelps, dedicata al nostro paese e avviata anch’essa all’inizio degli anni 90 (per poi concludersi in “Enterprise and inclusion in Italy” del 2002). Phelps, come ha ricordato una volta un suo allievo italiano, Alberto Petrucci, riconobbe “due fattori patologici” nell’economia italiana degli ultimi tre decenni: “Insufficiente spirito d’impresa o grado d’imprenditorialità” e “bassi livelli occupazionali”. Lo stesso economista americano, forse per il distacco permesso dalle sue origini statunitensi, proponeva infine “the abolition of the concertazione”. Ovvero l’abolizione di quel cordone ombelicale che tiene uniti stato, risorse pubbliche, imprese (soprattutto le più grandi) e sindacati. Nella buona e nella cattiva sorte.

Non si tratta di un’idea così peregrina, nemmeno nel pieno della più grave crisi dagli anni Trenta a oggi. L’economista bocconiano Francesco Giavazzi, non a caso, tornò su queste colonne ad auspicare “la chiusura” della Confindustria nel 2011, dopo averlo già fatto nel 2004, quando – di fronte all’outsider Sergio Marchionne – Viale dell’Astronomia dimostrò di “non riuscire nemmeno a battersi per riformare le regole in senso utile a produrre con efficienza”. Certo, da allora qualcosa si è mosso e nella giusta direzione, anche per effetto di quella scossa. La contrattazione aziendale, pur avversata da blocchi di potere che non vogliono vedersi sottrarre influenza a Roma, non è più tabù, almeno a parole. Per il resto, Viale dell’Astronomia non ha brillato per iniziativa. La meritoria campagna per il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione verso le imprese è più il frutto del soffocamento del normale canale del credito bancario che altro. Il governo tecnico di Mario Monti, caricatura dell’esecutivo “dei poteri forti”, è stato sempre trattato come avversario da imprenditori e banchieri organizzati. Sulla riforma delle pensioni e del lavoro, sul divieto d’incroci societari. Per non parlare del dossier “sussidi pubblici alle imprese”, rimasto in chissà quale cassetto (anche se ieri l’endorsement del ministro Passera per Squinzi qualche indizio lo fornisce) non soltanto per insipienza burocratica, evidentemente. Dopo mesi di ostentato terzismo, chiedere adesso la formazione di un esecutivo qualsiasi non sembra una gran trovata.

E se l’Unione sindacale di base fa circolare in queste ore al ministero del Lavoro messaggi di “non compianto” per la morte di Margaret Thatcher, è pur vero che Lady di Ferro in questo paese non se ne sono viste negli ultimi mesi. Lo spauracchio è tornato buono al massimo per gonfiare la retorica crisaiola attorno a eventi che di per sé sono tragici. Così il suicidio di un disoccupato a Civitanova Marche, assieme a moglie e cognato, è stato raccontato a milioni d’italiani come il “suicidio di un esodato”. Con nessun motivo apparente se non quello – forse nemmeno più consapevole – di smontare l’unica riforma strutturale degli ultimi mesi. Senza prendersi la briga di proporre disegni alternativi assumendosene il rischio che ne deriva.

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