Un equivoco, anzi no. Anno 1976
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Chiaromonte, un berlingueriano che seppe dire no alla svolta moralista
1-I giornali e i tg hanno interpretato attualizzandole le riflessioni fatte dal capo dello stato nel suo ultimo intervento pubblico, quello su Gerardo Chiaromonte a vent’anni dalla scomparsa. Napolitano per le larghe intese e contro Grillo, così i titoli. Falso. E vero. Falso perché, come dimostra il testo dell’intervento del presidente, e confermano le riflessioni del suo caro amico Macaluso che pubblichiamo qui, l’invocazione dell’unità nazionale come atto di coraggio è in un contesto storico in cui Napolitano conferma anche il suo dissenso dal modo con cui Berlinguer mise fine all’esperienza; e l’accenno all’antipolitica è storicamente contestuale anch’esso, perché parte dalla svolta che Pajetta chiamava di “moralismo storico” (invece che materialismo storico) fondata in Berlinguer sull’affermazione della superiorità antropologica e diversità morale dei comunisti. Ma l’attualizzazione è paradossalmente anche vera. Perché in un atto di fine mandato, e in un contesto di riflessione storica, Napolitano ha confermato una delle radici della linea e cultura di responsabilità nazionale che fu del Pci, in particolare di quello che predicava l’europeizzazione compiuta e l’approdo riformista e socialista del vecchio Pci.
2- Emanuele Macaluso ricorda il vecchio compagno migliorista, le battaglie meridionaliste e la ragion di Stato
Gerardo Chiaromonte aderì al Pci nel dicembre del 1943, ma – come scrisse nel suo libro biografico, “Col senno di poi” – fu la politica di Togliatti a “trasformare una semplice iscrizione in una scelta di vita”. Il riferimento è al fatto che il segretario del Pci, dopo il suo rientro in Italia (marzo 1944) propose una politica in cui su tutto prevaleva l’interesse nazionale: la liberazione e la riunificazione del paese, la conquista della democrazia, della Repubblica e della Costituente, per dare soluzione ai problemi antichi e nuovi che travagliavano l’Italia. Una politica che si identificava anche come via obbligata per un possibile transito gradualistico e democratico al socialismo. (…) Gerardo era a Napoli, la città che non era solo la capitale del mezzogiorno, ma un centro di elaborazione e iniziativa politica. E, con il contributo di Togliatti, e la straordinaria forza politica di Giorgio Amendola, la questione meridionale, intrecciata con quella della riforma agraria, si configurò, come questione nazionale e riferimento centrale della strategia togliattiana.
L’avvento della Guerra fredda e della divisione delle forze che avevano sconfitto il nazismo e il fascismo, i caratteri che assunsero le elezioni del 1948, la nascita del Cominform, condizionarono, e non poco, lo sviluppo della politica indicata da Togliatti e sancita dal V Congresso del Pci svoltosi a Roma nel dicembre del 1945. Tuttavia, se ci fu una battuta d’arresto e anche qualche arretramento, la linea di fondo, la scelta della via democratica, non fu certamente rovesciata. Negli anni Cinquanta, si svolsero grandi lotte sociali per la riforma agraria e per la rinascita del mezzogiorno che coinvolsero tanti giovani fra cui Gerardo. Che la strategia non cambiò è testimoniato dal carattere che assunsero quelle lotte. Una strategia che Togliatti sintetizzò in un passo del discorso che fece ai comunisti napoletani nel Congresso del 1954. Eccolo: “La soluzione della questione meridionale può essere rinviata a quando avremo il potere socialista? Si possono rinviare la riforma fondiaria, la riforma dei patti agrari, l’industrializzazione di Napoli ecc.? No, queste questioni non si possono rinviare, perché le popolazioni meridionali debbono vivere e noi dobbiamo guidarle a conquistarsi quella migliore esistenza a cui hanno diritto” – “Migliore esistenza” nell’oggi, diceva Togliatti: anche lui un po’ migliorista! Questo intreccio: la lotta per migliorare le condizioni di vita del popolo e le riforme per cambiare il sud e il paese, furono il pane quotidiano che nutrì una generazione di comunisti a Napoli, nel sud, in Sicilia, in tutto il paese. E ricordando l’opera di Gerardo voglio ricordare quello di un gruppo di giovani formatosi a Napoli con Giorgio Amendola che hanno dato un eccezionale contributo alla politica nazionale. Faccio solo tre nomi per non farne tanti: Chiaromonte, Maurizio Valenzi, Giorgio Napolitano. Non è stato il contributo di un gruppo, gli “amendoliani”, ma di persone che autonomamente, e anche su posizioni diverse hanno svolto nel Pci e soprattutto nelle istituzioni un ruolo rilevante.
E un dato politico-culturale ha legato questi compagni ad altri che avevano storie ed esperienze diverse. Attiene al rapporto tra lotte per le riforme e sistema di alleanze sociali e politiche: soprattutto il rapporto con il partito socialista. (…) Il confronto nel Pci dei primi anni Sessanta sul centrosinistra tra chi lo bollò come un tentativo del neocapitalismo di inglobare la classe operaia, in un disegno di modernizzazione a cui cedevano i socialisti, e Togliatti che invece lo considerò un terreno nuovo e più avanzato nella battaglia per le riforme. L’11° Congresso, svoltosi nel 1966, con il noto intervento di Pietro Ingrao, mise in evidenza come una parte significativa del partito sposava le sue posizioni. Ancora una volta il contrasto riguardava il carattere delle riforme e il sistema delle alleanze: i rapporti a sinistra, col Psi, non riconducibili solo al Psiup. Anche in quella occasione Gerardo partecipò attivamente a quel confronto politico. Chiaromonte fu stretto collaboratore di Berlinguer e nella segreteria del Pci. Contribuì, con Bufalini e Napolitano, alla elaborazione della politica che sboccò nel 1976 nei governi di solidarietà democratica e nell’aspra lotta al terrorismo. Una collaborazione che continuò anche dopo la fine di quel governo e il Congresso del Pci del 1979 che confermò la linea politica dell’Unità democratica. Questo rapporto politicamente si complicò quando nel 1980-’81 Berlinguer propose una svolta con la nota formula dell’alternativa democratica, e un forte rilancio della questione morale. I fatti noti e le polemiche hanno avuto un’eco anche recentemente, con giudizi, su chi criticò quella svolta, che falsificano la storia. Se ne parla come se il dissenso politicamente aperto e motivato riguardasse la questione morale e non in quel momento come venne posta.
Il giudizio più severo su quelle posizioni assunte da Berlinguer l’ho ritrovato nei diari di Natta, il quale dopo la morte di Enrico fu considerato l’erede politico più conseguente e perciò eletto segretario del partito. Scriveva Natta: “Le cose sono dette in modo irritante, gli altri sono ladri, noi non abbiamo voluto diventarlo. C’è una verità sostanziale – commentava Natta – ma il tono è moralistico, settario, nel senso di una superiorità da eletti, da puri”. Chiaromonte invece, sul tema, svolse ragionamenti che attenevano ai rapporti politici. Nel suo libro scrive: “Il fatto grave, che Berlinguer sostanzialmente avallò, è che sembrò necessario, a una parte del Pci, che per dare credibilità alla linea alternativa era necessario un taglio radicale con la politica precedente di solidarietà democratica e si veniva accentuando, nel corpo del Pci, una larghissima diffidenza nei confronti del Psi e una conflittualità esasperata tra comunisti e socialisti”. Era quel che in quel periodo voleva anche Craxi. Chiaromonte sviluppò questi argomenti , ma al tempo stesso scriveva: “Le critiche alle quali ho accennato non diminuiscono in me la stima per un dirigente del Pci che ho ammirato anche per il suo costume di serietà. (…) Un comunista italiano che ha saputo riaffermare a Mosca il carattere universale della democrazia, e al quale hanno guardato i rinnovatori, i democratici, i rivoluzionari dell’est e dell’ovest dell’Europa e del mondo”. Sono questi i sentimenti e gli apprezzamenti anche di chi in quella occasione mosse critiche a Berlinguer. Per alcuni novelli berlingueriani, sembra che la sua opera omnia sia racchiusa nell’intervista a Eugenio Scalfari sulla questione morale. Concludo.
Gerardo continuò il suo impegno con lo stesso fervore politico e la stessa linea – l’unità a sinistra e l’unità democratica come condizioni ineludibili per una politica di riforme. E lo fece anche dal momento in cui Occhetto propose la svolta della Bolognina indicando con altri compagni l’approdo nel socialismo. Ma il clima nel Pci, per quel che riguarda i rapporti tra compagni che avevano posizioni politiche diverse, era cambiato e lo si vide al XVIII Congresso (1989) e nel XIX (1990), quando Gerardo non fu eletto nella direzione. Tuttavia, il suo impegno non mutò di una vergola nel partito e soprattutto nelle istituzioni. E oggi
possiamo ricordarlo non solo come militante e combattente della sinistra italiana, ma soprattutto come uomo sempre al servizio delle istituzioni e dello Stato democratico.
di Emanuele Macaluso, 10/4