Così Francesco supera la guerra politica dei cattolici americani
- Dettagli
- Categoria: Firme
New York. La delegazione americana che ieri ha assistito alla prima messa di
Papa Francesco era guidata dal vicepresidente, Joe Biden, e dalla leader dei democratici alla Camera, Nancy Pelosi, cattolici progressisti convinti sostenitori del diritto all’aborto e dei matrimoni omosessuali. Biden in passato ha anche cercato di spiegare che le sue non sono appena opinioni personali, ma il risultato della corretta interpretazione della dottrina della chiesa, che nel corso della storia, sostiene, ha modificato la definizione di bene e male. Il vescovo di Wilmington, la città di Biden, gli ha gentilmente ma fermamente fatto notare che era fuori strada. Biden e Pelosi rappresentano una parte dei cattolici americani, divisi secondo uno schema fedelmente ricalcato su quello politico. Ci sono i progressisti e i conservatori, i democratici e i repubblicani, ci sono i cattolici à la Kennedy che confinano la chiesa nell’ambito del privato, e quelli conservatori à la Rick Santorum, che al solo sentire i precetti kennediani in materia di fede hanno i conati di vomito, come ha detto l’ex senatore durante la sua breve campagna elettorale. Ci sono quelli che negoziano sulla vita e, nel tentativo di bilanciare, sbilanciano il cattolicesimo sulla giustizia sociale, sulla retorica degli ultimi, sui diritti moltiplicati all’infinito, sulle tasse ai ricchi; poi ci sono i conservatori, tradizionalisti in fatto di dottrina e liberisti in economia, secondo lo spirito del loro partito di riferimento. I cattolici in America tendono a riproporre anche lo stesso linguaggio che distingue la politica.
Un Papa di nome Francesco con l’anello ferreo e molta compassione per i poveri sembra una benedizione per i cattolici liberal che percepivano Benedetto XVI come un corpo estraneo, un teologo che parlava la lingua cifrata della razionalità; in realtà, Francesco ha le caratteristiche per essere il distruttore di quella che lo storico cattolico Brad Gregory chiama “un’enorme ambiguità” nata dall’assimilazione, nata in ambito protestante, della categorie universali della chiesa a quelle provvisorie della politica: “Nel contesto del cattolicesimo americano – dice Gregory al Foglio – Francesco può diventare il Papa che parla il linguaggio dei cattolici liberal, che si rende comprensibile, ma che allo stesso tempo è inamovibile sui principi fondamentali. Credo che dopo l’iniziale esaltazione per i riferimenti ai poveri, agli ultimi e alla giustizia sociale i progressisti rimarranno molto delusi da Francesco. La differenza rispetto al predecessore è che non potranno completamente escluderlo dal dibattito, perché attinge dal loro stesso vocabolario. Con Ratzinger era semplice: lo trattavano come una grande autorità che lanciava messaggi da un altro pianeta”. Ma anche per i “free market catholics” l’arrivo di Francesco pone qualche interrogativo, dice Gregory: “Il suo carisma non può lasciare indifferente chi crede che il mercato sia il compimento della dottrina sociale della chiesa. Credo che Francesco possa essere il Papa che romperà lo schema della polarizzazione politica dei cattolici americani”.
Lo scrittore cattolico Selwyn Duke è meno ottimista sulle possibilità di Francesco di modificare il canone politico del cattolicesimo americano, ma è paradossalmente lieto che si sia creato un gran dibattito per ascrivere il Papa a questa o a quella fazione: “E’ la dimostrazione – dice al Foglio – che l’occidente è bloccato nel relativismo. In America si usano categorie politiche per spiegare la chiesa perché ormai non ce ne sono altre a disposizione. Invece di misurarci con la Verità, ci misuriamo con noi stessi, con il nostro spettro politico. Francesco ha una grande sfida davanti, che è reintrodurre la categoria della verità. La divisione secondo criteri politici è soltanto l’ultima conseguenza di questa perdita”.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Mattia Ferraresi – @mattiaferraresi, 2