Far ripartire la domanda interna
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Far ripartire il pil (prodotto interno lordo) bisogna far ripartire la
domanda interna, i consumi. Questi certo sono influenzati da tanti fattori, come ad esempio le condizioni del credito, ma l’ottimismo – il lato psicologico – è fondamentale. Con la paura la gente non spende.
Sono tra quelli che sono convinti che una parte del rallentamento nei consumi di questi ultimi mesi sia legato anche alla gestione del rapporto tra fisco e contribuente che ha spaventato il “consumatore” anche in regola con il fisco, che come reazione non spende più nulla e l’economia si avvita. Non è il massimo
neanche per il gettito fiscale. Bisogna cambiare marcia sui temi fiscali, l’obiettivo deve essere far pagare le tasse senza bloccare i consumi. Per non stare nel generico, qui di seguito due “idee semi choc”.
Non si possono più cambiare le leggi fiscali ex post, come venne fatto con il cosiddetto scudo fiscale. Nella competizione internazionale la stabilità e certezza delle leggi sono un pre-requisito fondamentale e in quest’ottica cambiare le norme sullo scudo fiscale è stato (ex post anche alla luce del gettito ottenuto) un errore, perché ha creato un clima di “paura” nel futuro.
Per rilanciare la fiducia il prossimo governo potrebbe impegnarsi perché l’ordinamento tributario italiano si doti di una norma, di rango costituzionale, che riconosca il principio della certezza dei rapporti giuridici in materia fiscale, rafforzando i principi di irretroattività e di affidamento previsti dallo statuto del contribuente. L’art. 53 della Costituzione dovrebbe prevedere l’aggiunta “il sistema tributario è improntato ai principi dell’affidamento e della certezza del diritto”, e “le disposizioni tributarie non hanno effetto
retroattivo”. Basta redditometro che deprime i consumi senza colpire gli evasori; cambiamo la dichiarazione dei redditi!
Bisogna cambiare – per sempre – il modello unico delle persone fisiche inserendo nella dichiarazione dei redditi anche la situazione patrimoniale, come accade in molti altri paesi occidentali tra cui la Svizzera. Bisogna che dalla dichiarazione dei redditi si possa confrontare, anno per anno, il reddito netto complessivo
disponibile con le dotazioni patrimoniali esistenti, al netto delle donazioni ricevute.
Una vera rivoluzione nella lotta contro l’evasione in cui il nostro paese è in ritardo anche se le informazioni patrimoniali sono in gran parte già a disposizione dell’Agenzia delle entrate. In contropartita per questo
cambiamento il prossimo governo potrebbe impegnarsi ad accorciare i termini di accertamento sulle persone fisiche.
Sono convinto che una volta fosse chiaro ai cittadini che evadere è praticamente impossibile cambierebbe la mentalità e che senza “la paura del redditometro” sugli anni passati la gente tornerebbe a consumare. Alla fine lo scopo del governo è obbligare i propri cittadini a pagare tutti le imposte, con le buone, e non bloccare la domanda interna. Far ripartire i consumi grazie a un rapporto più moderno con il fisco è necessario per invertire la rotta e tornare a crescere.
Chi capisce questo la prossima volta “al nord” vince, alla grande.
Finora si è pensato che il futuro fosse condizionato dal passato, e cioè che le scelte fatte nel presente, e ovviamente tese a modellare il futuro, fossero prevalentemente dettate dallo stato dei fatti che si
accumulano nel passato. Adesso il rapporto si inverte: è il futuro che determina (o tende a determinare) le scelte che si fanno nel presente. Ovvero: il futuro si “mangia” il presente e resetta il passato senza perdere tempo a confutarlo. Il fenomeno non è del tutto nuovo. L’Illuminismo di metà Settecento voleva cancellare
il passato e costruire un “nuovo ordine mondiale”: non aveva a disposizione la rete, ma ne creò un’anticipazione con l’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, una forma di conoscenza globalizzata, cartacea, ma consultabile come oggi facciamo con Internet, orientata a costruire il futuro come dimensione superiore al passato.
A metà Ottocento, grazie alla valanga di scoperte scientifiche e di innovazioni tecnologiche, lo stesso entusiasmo pervase il Positivismo e lo Scientismo: le macchine e l’elettricità, elementi di base dei futuri
computer, avrebbero disegnato il futuro, cancellando a mano a mano la partecipazione dell’uomo e quella dilatazione/assenza del tempo che è la riflessione. Sappiamo come finì: nell’esaltazione dell’irrazionalismo,
nel trionfo dei miti della potenza individuale (superuomo e allegato nichilismo) o collettiva (nazionalismo, razzismo, classe sociale, pansindacalismo). In questi ultimi decenni, il fenomeno dell’ossessione del futuro è riapparso e attacca quella cosa che sembrava avere vinto ed essersi assicurata la sopravvivenza: la democrazia.Questa si può definire come il meccanismo decisionale che subordina il futuro alla libertà. In altre parole, siamo noi, con le nostre scelte, che costruiamo il futuro. Ma le nostre scelte, sono veramente libere? Questo è il punto che i “future studies” – condotti da ormai numerosi pensatoi, centri di ricerca pubblici e privati – mettono in discussione. Non si fa forse una riforma del sistema pensionistico o sanitario in funzione di quanti saranno – in futuro – i pensionati e/o gli anziani tra venti o cinquant’anni? Non si fanno forse piani energetici in funzione di quale sarà il fabbisogno nei prossimi trent’anni? Lo stesso vale per l’acqua, le case, l’alimentazione, la scuola, le professioni. Eppure non si può dire che, in fondo, la politica ha sempre fatto così, perché gli spazi per le scelte autonome della politica (stato ed enti) e dei privati (imprese) si stanno riducendo proprio a causa dei condizionamenti imposti dal futuro su scala transnazionale.
Ciò che sta riducendo la sovranità degli stati è solo in parte una auto limitazione; nella sostanza è l’adattamento a un progetto che viene dal futuro, costruito pensando a uno scenario futuro considerato
cogente nel presente.
E’ chiaro che siamo in transizione per cui le istituzioni nate per costruire il futuro sul passato (past oriented) cigolano nel loro adattarsi a costruire il futuro sul futuro (future oriented), e il sistema democratico in cui esse si configurano ne soffre. Con una conseguenza paradossale. La vittoria del “mercato”, una ventina di anni fa, sulla “pianificazione” (modello sovietico), fu senza dubbio un successo della democrazia come “meccanismo decisionale che subordina il futuro alla libertà”, ma la pianificazione che fu sconfitta era di tipo politico-volontaristico (con forti venature ideologiche e nazionalistiche), mentre ora i governi (e i partiti, i sindacati, le autonomie) dell’età della globalizzazione devono confrontarsi con un futuro che si presenta in forma scientifica, quantitativa, con margini di oscillazione ristretti e, soprattutto, tiene in scarsa considerazione i confini degli stati nazionali e i poteri relativi.
Gli studi previsionali prospettano ai governi l’opportunità di adeguarsi a una pianificazione “dettata dal futuro” e come unica alternativa ammettono il default. O scenari apocalittici.
Ora questi centri di ricerca stanno formando una burocrazia transnazionale e interconnessa (i loro studi circolano da un istituto all’altro, si criticano e si sostengono), post cartacea e post impiegatizia com’è quella che conoscono i cittadini, e ha come referenti e principali destinatari i governi e i parlamenti che, per la loro gestione intermittente del potere, ne sono soverchiati e influenzati. A tali centri si può applicare il principio baconiano “sapere è potere” che contrasta con il principio ideologico, di destra o di sinistra, “volere è potere”. A mano a mano che i regimi democratici vengono privati della conoscenza dai centri che producono i future studies, i partiti e i movimenti d’opinione sono ridotti a scegliere tra gli scenari proposti da questi stessi centri che possono vantare la conoscenza del futuro, riducendo la politica ad ancilla scientiae.
Ciò produrrà una nuova gerarchia di potenze (questione che interessa molto i future studies). Infatti, solo i grandi paesi, dotati di grandi risorse, potranno attuare gli scenari previsti, lasciando indietro gli altri, costretti ad adeguarsi. In questo modo, tanto i grandi quanto i piccoli paesi, e a maggior ragione i soggetti minori, imprese incluse, si orienteranno verso nuove forme di pianificazione a libertà parametrizzata per consentire al futuro di determinare il presente. Un esempio: il Fiscal compact (a livello europeo) e la spending review (a livello nazionale) sono il futuro quantificato che già dà ordini al presente. Distrarsi sui costi della politica, sui vitalizi, sui tagli di parlamentari o di consiglieri regionali o provinciali o comunali, e aggiungo sulla legge elettorale e sulle ipotesi di alleanze di governo, sono tutte operazioni “past oriented”, comuni anche al Movimento 5 stelle che pure invoca una specie di internetcrazia. Operazioni che inchiodano il dibattito su dettagli cosmetici, alla ricerca di una “democrazia partecipativa” che non c’era nemmeno nell’Atene del V secolo a. C. e che pure contava “solo” trentamila “cittadini” che parlavano di politica dalla mattina alla sera, e anche durante la notte, stando al “Simposio” di Platone, e cheprospetta un futuro da “pianificati”.
L’ossessione del lungo termine che narcotizza la democrazia. Il Foglio, 6/3