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Ma nell’euro si può ancora fare politica di gauche? Parlano Salvati, Fassina, Debenedetti e Goulard
di Marco Valerio Lo Prete | 24 Febbraio 2015 ore 06:18 Foglio
Roma. In ciascun paese democratico votiamo per eleggere un governo che poi persegue una politica economica in linea con quanto annunciato in campagna elettorale. Il ragionamento è semplice e lineare, ma sempre meno realistico all’interno dell’Eurozona. Grecia docet. Il primo ministro ellenico Alexis Tsipras, a fronte di un solido mandato popolare, in queste ore ha dovuto inviare all’Eurogruppo una lista di riforme compatibili con la continuazione per i prossimi quattro mesi del programma europeo di assistenza finanziaria. Nella lista delle riforme di Atene ci sarebbero lotta all’evasione fiscale e imposta patrimoniale, ma le assenze in quella lista sono perfino più significative. Niente taglio del debito pubblico (come pure era stato annunciato in campagna elettorale), nessun passo indietro significativo sulla liberalizzazione del mercato del lavoro (idem come sopra), niente blocco totale delle privatizzazioni in corso (idem). Dunque questa volta i partner europei non si sono accontentati di vedere rispettati i saldi di finanza pubblica, hanno inciso più a fondo. Ergo: non basta più che il cittadino voti un programma di sinistra radicale – comunque lo si giudichi –, che gli assicuri consensi maggioritari, per poi vedere attuato quello stesso programma.
Da qui il dubbio: è ancora permesso fare una politica di sinistra-sinistra nell’attuale Eurozona? La Grecia è un caso limite o consente qualche tipo di generalizzazione? “Ogni paese dell’Eurozona non è libero di perseguire la macroeconomia che vuole”, dice al Foglio Michele Salvati. Il politologo non nega l’eccezionalismo greco, quello di un paese che “se non ci fosse l’euro sarebbe già fallito, e che dopo l’ingresso nella moneta unica ha fondato il suo sviluppo sul debito, senza sviluppare una propria capacità di produzione industriale”. Detto ciò, “le politiche proposte da Syriza sarebbero pure possibili, ma fuori dall’euro”. Al suo interno non si può, anche se per un momento si tenesse fuori la questione del debito greco (nelle mani degli stati) e ci si concentrasse su altri aspetti del programma di Syriza o di altri partiti di sinistra: “Il punto è che il paese leader dell’Eurozona, la Germania, oggi si rifiuta di accettare una simmetria di compiti e comportamenti. Un certo paese deve diventare più efficiente, ma poi chi è più efficiente non sfrutta tale efficienza per contenere altri squilibri, come nel caso delle politiche di avanzo della bilancia corrente tedesca. Il paese leader, dunque, rifiuta di esercitare in toto la sua leadership. Questo pone di fronte a un quesito difficilissimo quei partiti che per andare al governo giurano fedeltà alla moneta unica ma promettono politiche che si scontrano con quell’impostazione dominante”. Salvati non è un fan di Syriza, ritiene che il debito greco prima o poi andrà comunque ristrutturato, ma lascia intendere che perfino l’Italia – con la lettera della Banca centrale europea al nostro governo nel 2011 – abbia fronteggiato da vicino il dilemma.
Stefano Fassina, tra gli esponenti di spicco della minoranza della sinistra Pd, è ancora più netto: “Oggi, nell’attuale quadro di politica economica europea, improntato a mercantilismo e svalutazione del lavoro, la sinistra non ha spazio”, dice al Foglio. Non inganni la baldanza di Tsipras e del suo ministro delle Finanze, Yanis Varoufakis – sostiene Fassina – perché così è andata anche in Francia, con l’elezione del socialista François Hollande nel 2012 seguita da un suo “ravvedimento” più riformista: “Se la politica democratica è scelta fra diverse alternative – dice Fassina – e se per un’alternativa manca a priori lo spazio, allora non c’è spazio per una democrazia completa in Europa”.
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Fassina sostiene che “se la Grecia intende rifiutare le politiche mercantilistiche e di svalutazione del lavoro, scolpite nelle regole comunitarie che a loro volta sono frutto però di equilibri politici ben precisi, la Grecia non ha alternative se non quella di uscire dall’euro”. Se la democrazia nell’Eurozona è addirittura mutilata, non consente di percorrere strade troppo distanti da quella battuta dalla Germania, allora la democrazia si può realizzare soltanto uscendo dall’euro? “Siamo molto vicini a questa conclusione”, replica Fassina. “Ciò detto, nel caso della Francia la verità è che Hollande si è dimostrato subalterno all’impostazione dominante, dunque non ha mai fatto un tentativo di cambiare le cose”.
In Italia governa la sinistra di Matteo Renzi, ma per Fassina “la sua ricetta sul lavoro è la stessa della Troika”. Anche qui un’eventuale alternativa deve mettere in conto l’uscita dall’euro? “Se fosse un paese importante come l’Italia a provare un’altra strada rispetto a quella dominante, con un peso politico diverso da quello di Atene, il risultato sarebbe diverso”.
Franco Debenedetti, presidente dell’Istituto Bruno Leoni e già senatore dei Democratici di sinistra, fa una premessa: “Quelle di Syriza sono davvero politiche ‘di sinistra’? Non sono piuttosto politiche di ‘sinistra populista’?”. Possibile; resta il fatto che, seppur sostenute da un mandato elettorale, vengono in buona parte cassate in seguito a una serie di avvenimenti del tutto esterni al circuito elettorale. In Europa dunque non è possibile proporre e poi testare politiche di “sinistra populista”? “In realtà queste, prim’ancora che politiche incompatibili con le regole o con la cultura dominante dell’Eurozona, sono politiche incompatibili con i mercati”, replica Debenedetti. Anche lui, come Salvati, cita il caso italiano: “Lo spread tra i Btp italiani e i Bund tedeschi, alla fine del 2011, non lo inventò Berlino. A scatenarlo furono i mercati che non credevano nella sostenibilità delle nostre politiche economiche”. Ancora una volta, non manca chi dice che in presenza di una Banca centrale in stile Fed, la fiammata dello spread non ci sarebbe stata: “Non si può oggi far finta di dimenticare che la Germania, come condizione di esistenza della moneta unica, avesse indicato l’eguaglianza tra Bundesbank e Bce. I mercati giudicano l’euro per quello che è, e giudicherebbero le politiche greche troppo devianti per quello che sono”.
Resta un fatto: gli elettori greci, per quanto possano optare per scelte considerate “radicali”, oggi contano e non contano. Perfino quelli tedeschi, a volerla dire tutta, devono accettare concessioni che forse non approverebbero mai in via referendaria. Ecco cosa ne pensa Sylvie Goulard, eurodeputa liberale di nazionalità francese, autrice con l’ex premier italiano Mario Monti del saggio “La democrazia in Europa”, in cui si ragionava pure di tecnocrazia e depoliticizzazione: “Come diceva Montesquieu, la democrazia richiede anche la ‘virtù’”, dice al Foglio. “Non è possibile condurre una campagna elettorale senza tenere minimamente conto della realtà esterna e poi dire che l’Europa non è democratica”. Tsipras, secondo l’eurodeputata francese che fu consigliera di Romano Prodi quando lui era presidente della Commissione Ue, ha omesso di dire almeno due cose agli elettori. Primo, “nel diritto internazionale uno stato deve assicurare la continuità degli impegni presi con i partner. E i precedenti governi di Atene avevano partecipato a pieno titolo agli Eurogruppi da cui erano nati gli accordi in vigore”. Poi c’è un’altra bardatura che contiene il mero risultato delle urne: “A fronte di una moneta comune, c’è una sovranità condivisa”. Però le liberalizzazioni o le privatizzazioni non sono scritte nei trattati, a differenza del tetto del 3 per cento al deficit: “Le elezioni in un solo paese non cambiano tutto il paesaggio democratico. Ci sono governi di altri paesi membri il cui programma è stato approvato da elettori e Parlamento”. Anche con questi Atene deve scendere a patti, e “non può decidere in maniera unilaterale, visto che ci sono paesi – come la Francia – che hanno pure impegnato risorse finanziarie”. Questa non sarebbe democrazia, secondo Goulard.
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