Fukuyama chiude il cerchio ideologico della politica
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estera di una sinistra che non vuole più salvare il mondo
di Paola Peduzzi | 24 Marzo 2015 ore 17:36 Foglio
Fermi tutti, non sporchiamoci le mani, se c’è una lezione che il mondo deve avere “chiaramente” imparato dall’11 settembre in poi, nella guerra al terrorismo islamista, è che “nessuno, a Washington o in qualsiasi altra capitale, ha la saggezza necessaria per costruire un ordine politico legittimo e stabile in medio oriente nel prossimo futuro”. E’ più utile scegliere la strada del contenimento del terrorismo e dell’“offshore balancing”, una politica estera fatta di alleanze flessibili, senza amici e nemici stabili, ma scelti di volta in volta sulla base delle esigenze di sicurezza del momento. E’ questa la proposta di Francis Fukuyama in un articolo sulla rivista American Interest (da lui fondata nel 2005): c’è la tendenza, dice l’intellettuale americano, a “overreact” di fronte a gruppi come lo Stato islamico (e prima con al Qaida), quando sarebbe invece necessario rivedere l’approccio dalle origini, stabilendo che lo Stato islamico “non pone alcuna minaccia esistenziale agli interessi americani o di altri paesi democratici” – così come gli attacchi a Parigi “devono essere considerati più come atti criminali pericolosi che come minacce alla sicurezza nazionale”.
Con questo suo ultimo minisaggio, Fukuyama chiude un cerchio politico e ideologico – che è quello della sinistra americana – che lui stesso aprì nel 1992 con il suo libro più famoso, “La fine della storia”, che ispirò la politica estera dell’interventismo liberale degli anni Novanta e che lo fece arruolare tra i neocon. Già nel 2003, a invasione irachena appena iniziata, Fukuyama rinnegò quest’impostazione ideologico-culturale, divenne un critico feroce della visione interventista, smise di parlare con Paul Wolfowitz, architetto della guerra in Iraq e fino ad allora suo amico, e chiese le dimissioni di Donald Rumsfeld da segretario alla Difesa. Nel 2008, Fukuyama appoggiò Barack Obama, e in questi anni è diventato il cantore di quel realismo costellato di frasi a effetto – le linee rosse, la distruzione del califfo nemico – che è la politica estera americana.
Oggi Fukuyama dice che anche le frasi a effetto sono inutili, perché stabiliscono “obiettivi che non si possono raggiungere”: bisogna utilizzare con sapienza – e con l’unico scopo di contenere il terrorismo – gli interventi militari in modo da evitare che qualcuno, lo Stato islamico o un Assad, possa “diventare così forte da imporre la propria volontà sulla regione”. Non dobbiamo scegliere tra sciiti e sunniti, ma alternare le alleanze a seconda del contesto, passando di qui e di là, un “offshore balancing” che fa sì che lo scontro sia tra gli attori locali. I quali poi, a un certo punto, stanchi del conflitto, troveranno un accordo. E’ una formulazione raffinata del messaggio di Obama, sintetizzabile in: cavatevela. Non è una guerra nostra, quella contro il terrorismo, e se “può sembrare cinico lasciare che il dittatore siriano Assad e lo Stato islamico si combattano l’un l’altro fino alla morte”, le alternative interventiste sono ben peggiori. Ma non illudetevi, la pace non ci sarà: “Non possiamo promettere una stabilizzazione definitiva”, che è appunto il problema della strategia adottata finora.