Catenaccio obamiano
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Il columnist del Wall Street Journal Bret Stephens l’America è diventata un paese più timoroso di offendere che preoccupato di difendersi
di Bret Stephens | 08 Dicembre 2015 ore 17:17 Foglio
Nessuno tra quanti hanno ascoltato il discorso di Barack Obama domenica notte, quando il presidente americano ha delineato la sua strategia per combattere lo Stato islamico (Isis), sarà rimasto deluso dalla performance. Per essere delusi, ci si sarebbe dovuti attendere qualcosa di meglio”, così ieri, sul Wall Street Journal, ha esordito il commentatore Bret Stephens. “Ormai conosciamo l’impostazione dei ragionamenti di Obama. Il presidente, più che difendere una tesi, predica una visione morale. E scambia la persuasione con la mera ripetizione. Non si impelaga con la strategia, i dettagli e i trade-off di una specifica scelta politica, semplicemente perché ritiene di avere tutto sotto controllo. Le sue politiche non falliscono mai; al massimo è la nostra pazienza che difetta. Obama non si chiede cosa può fare lui per questo paese, ma cosa questo paese può fare per lui”. Ecco lo stesso schema che si ripete anche dopo l’attacco terroristico in California: “La sua strategia in quattro punti per sconfiggere l’Isis non cambia. (…) La sua convinzione che il terrorismo sia un altro problema da risolvere con politiche di ‘gun control’, cioè restrizioni sulla detenzione di armi da fuoco, affonda le sue radici nella fede liberal”. Tuttavia la parte più “stridente” del discoro obamiano, secondo Stephens, è quella che ha riguardato il tema dell’islam.
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“Non possiamo – ha detto Obama – metterci uno contro l’altro, lasciando che questa battaglia sia inquadrata come una guerra tra l’America e l’islam”. Chiosa Stephens sul Wall Street Journal: “Il terrorismo, per come lo vede il presidente americano, dev’essere temuto meno per i danni che infligge che per la reazione eccessiva che rischia di sollecitare. Questo presidente diventa così il maestro dell’autoaccusa preventiva: prevale l’idea che gli americani siano sempre sull’orlo di tornare alla malvagità originaria da cui sono venuti in tempi lontani. Ma da quando in qua ci siamo messi l’uno contro l’altro? Quand’è che avremmo definito la guerra al terrore come una guerra all’islam?”.
“Syed Rizwan Farook, un musulmano devoto con tanto di lunga barba, era un dipendente della contea, in buoni rapporti con i suoi colleghi che non hanno mai alzato un sopracciglio fino al momento in cui lui e la sua moglie straniera hanno aperto il fuoco a San Bernardino. Le prime 48 ore di indagini sono coincise con una fuga nazionale da ciò che era ovvio, un esercizio eroico di sensibilità culturale e di contrizione intellettuale, visto che ogni motivo – eccezion fatta per la jihad – è stato addotto quale possibile spiegazione per la strage. Se la moglie di Farook non avesse giurato fedeltà all’Isis subito prima l’attacco, saremmo ancora a discettare se ci troviamo di fronte a un atto di terrorismo islamista”. “Domenica La Stampa ha intervistato il padre di Farook, anche lui chiamato Syed. ‘Mio figlio diceva di condividere l’ideologia di Al Baghdadi, il leader dell’Isis, e di sostenere la creazione dello Stato islamico’, ha detto questo signore al corrispondente Paolo Mastrolilli. ‘Era ossessionato da Israele’, ha aggiunto. (…) Adesso la famiglia Farook si dice profondamente scioccata per quanto accaduto. Come possono essere scioccati? Com’è possibile che la nostra sia diventata una società in cui un figlio confessa al padre di sostenere lo Stato islamico e quella stessa società non fa nemmeno notare a questa famiglia musulmana così integrata, che vive l’American dream, che forse una telefonata all’Fbi sarebbe stata opportuna? Ecco come siamo diventati una società di questo tipo: fingendo che la visione radicale dell’islam alla quale Farook chiaramente si rifaceva sia una religione protetta invece che un’ideologia pericolosa. Sostenendo che sia quasi immorale nutrire qualche riserva su 10.000 rifugiati provenienti da Iraq e Siria invece che, per dire, dalla Nuova Zelanda. Avendo una tale paura di offendere moralmente l’altro che rinunciamo alla forma più elementare di difesa”. Questa, conclude Stephens, “è la visione che il presidente Obama ha della società americana”.