Con chi dovrebbe allearsi l’occidente per sconfiggere lo Stato islamico
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Nell’ultimo libro di Fiamma Nirenstein, “Il califfo e l’ayatollah” si parla dell’assedio al nostro mondo da parte dell’estremismo islamista. Non è l’Iran che darà stabilità a quell’area, per questo bisogna guardare a chi vuole difendersi sia dal sedicente califfo, sia dagli ayatollah persiani: Egitto e Arabia
di Massimo Bordin | 30 Novembre 2015 ore 13:40 Foglio
E’ tutt'altro che un instant-book, l'ultimo libro di Fiamma Nirenstein, anche se il titolo “Il califfo e l'ayatollah” può farlo supporre. Del resto, nemmeno il più astuto degli editori avrebbe potuto prevedere che sarebbe stato presentato nella libreria dell'auditorium romano dieci giorni dopo la strage di Parigi e poche ore dopo l'abbattimento del caccia russo ad opera dei turchi. "In genere, e soprattutto in guerra, vale il principio che il nemico del mio nemico è mio amico. Oggi in medio oriente non è così". Maurizio Molinari, con queste parole, ha di fatto riassunto il libro di Nirenstein. Se, come recita il sottotitolo, è in corso un "assedio al nostro mondo", non c'è da sperare che gli ayatollah di Teheran possano allearsi con l'occidente contro il feroce califfo, saranno piuttosto altri e diversi assedianti, anch'essi feroci. Solo con la barba più curata. E’ l'unica differenza a loro favore che Nirenstein concede. Pierluigi Battista ha ricordato come nella Seconda guerra mondiale le potenze democratiche si allearono con l'arcinemico Stalin pur di sconfiggere il male assoluto ma fecero di tutto per evitare che si dotasse della bomba atomica.
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Un capitolo del libro è appunto dedicato alla conduzione, incauta secondo l'autrice, della trattativa recentemente conclusa sulla bomba iraniana che viene costruita, ha ricordato Battista, con il prioritario e dichiarato scopo di "distruggere l'entità sionista" ovvero Israele. Né vale, per fermare attentati e decapitazioni, utilizzare l'ostilità sciita contro il califfo ultra sunnita. Il libro è dedicato al maggiore studioso occidentale del mondo islamico, Bernard Lewis e Nirenstein cita il giudizio dello storico inglese sulla sostanziale omogeneità delle due correnti dell'Islam nella loro lotta al mondo e alla cultura occidentale. Il libro non sottovaluta il ruolo e le nefandezze dello Stato islamico, e ne descrive la crescita, prima di tutto in Iraq, collegandola agli errori commessi dagli Stati Uniti nel periodo successivo alla sconfitta di Saddam. L'incrocio fra le tribù sunnite e alcuni alti gradi militari dell'inner circle di Saddam, sopravvissuti al raïs, viene molto ben descritto nelle pagine che trattano dell'ascesa del califfo, ma la logica del libro punta alle prospettive future più che alla ricostruzione storica. Il suo senso politico è quello di una serrata critica al comportamento della attuale presidenza americana.
A Obama viene imputata una linea ingenuamente democraticista nei confronti della cosiddetta Primavera islamica, ritenuta da Nirenstein l'origine dell'attuale crisi che mette a rischio finanche l'esistenza di almeno cinque stati dell'area. Non solo Siria e Iraq ma anche Libia, Yemen e Libano. E sbaglia l'attuale presidente americano se pensa che, per contrastare lo Stato islamico, sia utile ai paesi occidentali l'aspirazione dell'Iran a un ruolo di egemonia nell'area. Molinari ha portato più avanti la critica di Nirenstein, ricordando il valore per il regime degli ayatollah della teoria khomeinista della "esportazione della rivoluzione". Altro che ruolo stabilizzatore. Anzi, secondo l'inviato a Gerusalemme e prossimo direttore della Stampa, la crescita dello Stato islamico deriva proprio dalla paura araba per la innegabile avanzata sciita. Eppure una alleanza è possibile, sostiene Nirenstein con chi, in medio oriente, ha tutto l'interesse a difendersi sia dal sedicente califfo, sia dagli ayatollah persiani. Due stati in particolare sono in questa situazione: l'Egitto del generale El Sisi e l'Arabia dei Saud. Tradizionali alleati dell'occidente e, più apertamente l'Egitto, capaci di interlocuzione con lo stato di Israele.
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