Il piano americano si sgretola in Siria. Quello russo è sempre più chiaro
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Si dimette John Allen, l’inviato speciale di Obama contro lo Stato islamico. Gli addestramenti-farsa
di Daniele Raineri | 21 Settembre 2015 ore 06:03 Foglio
Roma. Ieri è uscita la notizia che a novembre l’ex generale americano John Allen si dimetterà dall’incarico di inviato speciale per la coalizione internazionale contro lo Stato islamico. Era stato nominato un anno fa dal presidente americano Barack Obama e tra le ragioni dell’abbandono sono citate le condizioni di salute della moglie. Secondo il giornalista Josh Rogin, di Bloomberg Businessweek, Allen lascia perché esasperato dalle interferenze della Casa Bianca nella campagna contro il gruppo estremista in Iraq e in Siria – che sta dando risultati deludenti. Per esempio: avrebbe chiesto l’invio in Iraq di team tattici di osservatori per guidare da terra i bombardamenti, ma la richiesta è stata rifiutata. Un altro esempio: ha chiesto all’Amministrazione americana di aderire al piano turco per creare una zona sicura al confine siriano, ma anche questa richiesta è stata respinta.
ARTICOLI CORRELATI Mosca segue “il modello Taiwan” e crea un suo ministato siriano Netanyahu faccia a faccia con Putin “per non spararsi” in Siria Prima o poi la Cina sarà coinvolta contro il terrorismo. E starà con la Russia Forse le dimissioni di Allen sono una reazione alle notizie di questi giorni. La Russia ha preso l’iniziativa militare in Siria a dispetto della “preoccupazione” americana e il piano di addestramento, deciso a Washington, di una milizia di ribelli siriana da impiegare contro lo Stato islamico sta fallendo con toni a metà tra l’agonia e la farsa. Secondo notizie che arrivano dal nord della Siria, l’ultimo distaccamento di settanta ribelli addestrati dall’America a entrare in Siria è stato arrestato, ha subito ripudiato l’appartenenza al programma americano e ha consegnato le armi a Jabhat al Nusra. La notizia delle dimissioni di Allen sono arrivate due ore dopo un’audizione del suo ex comandante, David Petraeus, davanti al Congresso. Petraeus ha parlato della Siria in modo opposto alla linea cauta dell’Amministrazione Obama.
Per esempio ha detto che l’America dovrebbe dire al presidente siriano Bashar el Assad: “Se userai ancora le barrel bombs, distruggeremo la tua aviazione”. Le barrel bombs sono lanciate, in modo del tutto casuale, sui centri abitati dagli elicotteri del governo di Damasco – che in via ufficiale ne nega persino l’esistenza.
La spedizione militare russa in Siria è sul punto di cominciare la guerra. Due giorni fa il giornale d’opposizione russo Novaya Gazeta ha pubblicato un articolo interessante per spiegare come lo farà. Secondo il giornale, che ha sentito fonti dentro gli uffici militari che si occupano della pianificazione e degli spostamenti di truppe, l’idea principale è confermare al mondo la serietà delle intenzioni russe in tempo per – o immediatamente dopo – il discorso del presidente russo Vladimir Putin all’Assemblea generale delle Nazioni Unite il prossimo 28 settembre. Putin userà per lo Stato islamico e per il terrorismo internazionale la definizione di “peggior nemico dell’umanità” e proporrà all’occidente una unificazione degli sforzi – almeno sul piano ideale – e non una coabitazione muta e ostile. L’inizio delle operazioni russe contro lo Stato islamico in Siria dovrebbe fare da accompagnamento inequivocabile al discorso. Gli specialisti studiano tre opzioni: un attacco dall’alto, un attacco con l’artiglieria e un raid di terra con l’aiuto di truppe locali. Le prime due opzioni sono le più sicure ma hanno il problema di non garantire risultati, e assomigliano troppo alla campagna aerea intrapresa dall’occidente un anno fa. La terza opzione è quella dell’attacco a terra e potrebbe essere condotta con l’aiuto di forze locali (il giornale cita curdi, soldati siriani e iraniani, minoranza cristiana), ma sarebbe difficile ottenere un successo “senza esperienze precedenti e senza una ferma fiducia tra i comandanti. Se non c’è una garanzia di successo certo, meglio non cominciare”. Traduzione: i russi non vogliono un fallimento per colpa degli alleati siriani. In ogni caso, l’importante non sarebbe l’ampiezza dell’attacco, ma la sua efficacia incontestabile con i media e la visibilità.
Putin è costretto a tenere conto di due pubblici diversi: quello internazionale e quello domestico, interno, della Siria – quindi il clan del presidente Bashar el Assad che da ultimo è un po’ scosso dalle sconfitte militari (l’intelligence israeliana chiama “Little Syria” la loro parte di paese). Per questo oltre all’azione contro l’Is, le operazioni russe si sdoppieranno e cominceranno anche su un secondo fronte, questo difensivo, per fermare l’avanzata dei gruppi islamisti nemici di Assad e anche dello Stato islamico. Fonti del Foglio nella regione di Latakia dicono di avere osservato i militari russi disporsi come seconda linea dietro le postazioni difese dall’esercito del presidente Assad. Il Financial Times scrive che il numero di soldati russi in Siria è cresciuto fino a duemila e secondo gli specialisti l’arrivo di due squadroni di jet ed elicotteri d’assalto russi nella base di Latakia è sufficiente a uccidere sul nascere qualsiasi offensiva lanciata dai ribelli. Ieri il segretario di stato americano, John Kerry, ha detto che gli aerei da guerra russi sono arrivati a Latakia per proteggere la base stessa che li ospita. Pare un goffo tentativo di minimizzare.
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