Così l’allergia alla guerra può danneggiare le democrazie
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Perché il pacifismo intrinseco dei regimi democratici e il loro ripudio della guerra espone agli attacchi diretti e indiretti dei fondamentalisti e al sovvertimento degli equilibri
di Lorenzo Castellani | 08 Settembre 2015 ore 12:50 Foglio
La forte avversione delle democrazie a entrare in guerra può diventare un grave problema in nei casi di situazioni seriamente pericolose” scrive Azar Gat, politologo israeliano della Hoover Institution, nel suo libro “Victorious and Vulnerable: Why Democracy Won in the 20th Century and How it is Still Imperiled” (2009). Un’affermazione che, insieme al contesto strategico globale, sembra adattarsi bene alla titubanza con cui le democrazie occidentali stanno affrontando la crisi libica e siriana. Secondo il docente israeliano, i regimi democratici tendono a evitare gli interventi militari frontali, come le operazioni “boots on the ground”, in cui non è messa in gioco la loro stessa sopravvivenza per le pressioni dell’opinione pubblica provocate dalle atrocità della guerra, l’uccisione dei civili, i danni collaterali. Le democrazie liberali sono per natura inclini alla ricerca del compromesso, dell’isolamento e del contenimento dei regimi autoritari che le minacciano cercando di costruire faticosamente operazioni di pace, interventi umanitari, strategie preventive, meglio se nascoste dal mandato internazionale, piuttosto che fronteggiare direttamente chi minaccia la distruzione della civiltà occidentale e attenta, in modo permanente e continuativo, ai simboli di quest’ultima.
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Le democrazie liberali sono meno propense alla guerra dei regimi autoritari per una serie di fattori. Primo, perché hanno combattuto meno guerre interstatali negli ultimi due secoli, dato che i regimi democratici tendono a non entrare in guerra tra loro. Secondo, perché le guerre che hanno combattuto sono state, in media, meno dure di quelle combattute dalla non democrazie in termini di vittime proprie. Questo perché le democrazie tendono ad essere tecnologicamente ed economicamente superiori, e di conseguenza più forti militarmente, di quanto non lo siano i regimi autoritari”. Le democrazie occidentali, argomenta Gat, tendono ad assumere un approccio graduale al conflitto che passa dalla diplomazia alle sanzioni, dal contenimento all’appeasement, dall’intervento militare mirato alla Guerra fredda, fino alla guerra aperta. In particolare, le democrazie occidentali tendono ad avere difficoltà nel contrastare le controinsurrezioni di gruppi armati che tendono a sovvertire l’ordine costruito dai regimi democratici. Questo perché le ricadute derivanti dalla repressione delle controinsurrezioni, in termini di perdite civili, impressionano l'elettorato e rendono difficile l’iniziativa da parte dei governi democratici. Tutto ciò accade soprattutto quando il nemico è tecnologicamente e militarmente più debole ma avanza coinvolgendo la popolazione civile perché i paesi occidentali hanno rinunciato, a partire dal Secondo dopoguerra, a quella dose di repressione tipica dell’imperialismo capace di soffocare le aggressioni all’ordine mondiale da questi costruito. Inoltre, le democrazie liberali sono molto più vulnerabili al terrorismo di quanto non lo siano i regimi illiberali proprio per la loro natura di società aperta, per l’influenza dei media, per il basso livello di sorveglianza e la scarsa capacità repressiva. Tutti aspetti che, raccordati tra loro e innaffiati dalla retorica pacifista, espongono le democrazie agli attacchi diretti e indiretti dei fondamentalisti e al sovvertimento degli equilibri da queste costruite.
La tesi del docente della Hoover Institution non si ferma solamente alle considerazioni strategiche e analizza, sotto una diversa luce, l’affermazione storica della democrazia liberale come regime politico di successo. Gat rifugge la versione ottimistica, oggi ampiamente contestata da un numero sempre crescente di scienziati politici, secondo cui la diffusione della democrazia sarebbe inarrestabile e questa costituirebbe un regime di “efficienza superiore”. Per esempio, i regimi autoritari di stampo capitalista della Germania e del Giappone, prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, godettero di un certo successo. In maniera diversa, l’Unione sovietica crollò non perché fosse un regime autoritario, ma perché era un regime comunista. La Seconda guerra mondiale, secondo il politologo, non venne vinta dalla democrazia liberale in quanto sistema politico più efficiente, ma per la taglia e le capacità militari superiori dei protagonisti. Germania e Giappone erano troppo piccole nei numeri e nell’arsenale. Gli Stati Uniti vinsero il conflitto mondiale con i numeri, non grazie al loro sistema politico e si assicurarono la vittoria con la fondamentale collaborazione della non-democratica Unione sovietica. Inoltre, la storia di Cina, Singapore, Corea del Sud e, negli ultimi anni, della Russia, hanno dimostrato come il successo economico e il pluralismo democratico non siano un binomio inscindibile nemmeno nell’èra della “knowledge society”.
Quando la Cina, tra il 2020 e il 2030, diventerà la prima economia al mondo, con ottime probabilità, sarà ancora un regime autoritario con ben poche aperture al modello delle democrazie occidentali. Le teorie, molto in voga presso gli establishment liberal di tutto il mondo, secondo cui la “information revolution” avrebbe determinato il successo economico solo delle democrazie plurali e liberali, è stato spesso smentito dai fatti e dal prepotente ritorno sulla scena mondiale del capitalismo autoritario. Il politologo israeliano non formula previsioni sul futuro, ma dallo studio della storia degli ultimi due secoli è giusto ricordare che il trionfo della democrazia è stato più figlio delle contingenze che della superiorità di un regime politico delicato e imperfetto quanto tutti gli altri conosciuti dalla storia della politica. Una lezione che, nella sbornia democratica e politicamente corretta di fine guerra fredda, gran parte delle classi dirigenti occidentali ha voluto dimenticare.
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