Dite addio a Tsipras, salvate le sue banche. Contro la lobby Krugman-Piketty:
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la Grecia può pagare gli interessi se accetta di modernizzarsi. Se non lo fa, fallisca. Per salvare l’euro, meglio commissariare le banche elleniche. Parla Cochrane (Hoover Institution)
di Marco Valerio Lo Prete | 10 Luglio 2015 ore 06:18
Roma. E’ nell’interesse della Grecia rimanere nell’euro. Se il premier Alexis Tsipras pensa di cambiare valuta per rilanciare lo sviluppo del paese, preservando lo status quo economico e sociale al suo interno, è vittima di un’illusione. “Come una persona che, insoddisfatta dell’ampiezza della casa in cui abita, decidesse semplicemente di cambiare nome all’unità di misura, abbandonando il consueto metro quadrato”. John H. Cochrane, Senior fellow della Hoover Institution e già professore della Booth School of Business dell’Università di Chicago, per analizzare l’attuale crisi che investe l’Eurozona utilizza un approccio tanto pragmatico da apparire a volte sfrontato. Diffida dell’eccesso di moralismo che fa capolino qui e lì nel dibattito economico e politico del nostro Vecchio continente, e suggerisce all’Europa di far fallire lo stato greco nel caso non accettasse le riforme, tenendone magari in vita le banche per evitare di perdere un pezzo dell’Eurozona. Se invece la Grecia alla fine uscisse davvero, allora, con buona pace del premio Nobel Paul Krugman, il piccolo paese assomiglierebbe “più a Cuba che alla Svizzera”.
Nella sua conversazione con il Foglio, Cochrane premette di essere “un economista, non un prete”, e di non amare perciò le categorie di “giusto” e “ingiusto”. Un riferimento all’eccessivo ricorso a categorie morali da parte di creditori e debitori, con la leadership tedesca che spesso confonde “debito” e “colpa”, e quella greca che bolla come “terroristi” i creditori. “E’ cosa saggia, negli affari pubblici, ragionare su causa ed effetto, su come funzionano i meccanismi economici. Una volta che si conoscono tutte le possibili soluzioni, allora si potrebbe pure valutare con criteri morali quale sia la strada preferita. Ma da economista mi concentro sul primo punto. Anche l’Europa, mi pare, non ha un eccellente pedigree nell’utilizzo di argomenti morali come guida delle politiche pubbliche. Lo stesso vale per gli Stati Uniti”. Cochrane, che di tanto in tanto scrive anche per il Wall Street Journal, dice che concentrarsi sul debito pubblico della Grecia, oggi superiore al 170 per cento del pil, equivale a “focalizzarsi sul tema sbagliato. Il pagamento degli interessi sul debito, oggi, non è così ingente per il paese. Né ad Atene è stato mai chiesto di ripagare tutto il suo debito questa estate! Dovrà essere ripagato lentamente, via via che il paese tornerà a crescere. Il tema vero è che la Grecia ha bisogno di liberalizzare la sua economia e di prendere sul serio le riforme strutturali. Come d’altronde deve fare l’Italia”, aggiunge l’economista che ha un blog personale intitolato “The grumpy economist”, cioè “l’economista scontroso”, ma che invece pare decisamente affabile, oltre che buon conoscitore del nostro idioma per il fatto di aver vissuto cinque anni a Firenze in gioventù, al seguito del padre Eric (professore di Storia italiana).
“La Grecia farebbe bene a rimanere nell’Unione europea e a continuare a utilizzare l’euro come sua valuta. Per questo i creditori dovrebbero favorirne lo sviluppo, premendo per le riforme e non per aumenti dell’imposizione fiscale a breve termine. Piccolo problema: Atene non pare così interessata a seguire un piano simile”. Il risultato di questo stallo, che potrebbe risolversi con il vertice dei capi di governo fissato per domenica, è che “la Grecia già oggi però è essenzialmente fuori dall’euro. Le banche sono chiuse, l’economia è ferma, e nel momento in cui gli istituti di credito riapriranno i cittadini correranno a ripulire i conti dei loro depositi in euro. Perciò, prima che riaprano, o la Grecia dovrà essere inondata di liquidità in euro, e allora dovrà aver sottoscritto un accordo. Oppure dovrà pagare i depositanti con una nuova dracma che varrà quasi nulla”. Nella situazione attuale, l’Europa ha decisamente meno da perdere da una cosiddetta “Grexit” di quanto non abbia da perdere la Grecia stessa. “Il paese è piccolo, per gli altri stati membri verrebbe semplicemente a mancare un pozzo in cui finiscono soldi pubblici. In caso di un compromesso al ribasso sulle riforme, invece, l’azzardo morale crescerebbe ovunque. La Grecia, da parte sua, fuori dalla moneta unica costituirebbe un caso di scuola di sottosviluppo, una lezione per gli altri stati membri. Dunque, meglio rimanere nell’euro”.
L’Europa – si sostiene spesso – dovrebbe reagire al campanello d’allarme greco andando verso un’unione fiscale vera e propria, sul modello degli Stati Uniti. Cochrane, dal suo ufficio a Stanford, scherza sull’America “che appare così grande e forte quando vista dall’Europa, e ne sono felice”. Poi però ricorre a un esempio per spiegare che la vera differenza tra i due continenti è un’altra: “Il territorio statunitense del Portorico è sull’orlo del fallimento, ma i portoricani non fanno la fila di fronte alle banche per paura che i loro depositi vengano convertiti dal dollaro a un’altra valuta meno preziosa. L’aspetto peculiare degli Stati Uniti è che non abbiamo banche pubbliche, né banche colme di titoli del debito pubblico e che quindi sarebbero costrette a fallire nel caso uno stato non riuscisse più a saldare i propri debiti. Abbiamo un sistema bancario unico per tutto il paese”, dice Cochrane. “Il peccato originale dell’Europa è che non ha un’integrazione bancaria completa. I regolatori europei ancora considerano i titoli del debito pubblico come liberi da ogni rischio, ne incentivano così l’acquisto da parte delle banche, e i governi europei se ne approfittano per lasciar riempire i bilanci bancari dei loro titoli. Se ogni cittadino greco potesse depositare i suoi soldi in banche pan-europee che avessero diversificato gli investimenti in tutto il continente, slegate dai governi locali, allora ci sarebbe una crisi del debito sovrano senza corsa agli sportelli e crisi finanziarie annesse”. L’economista, a quanti sostengono che non ci può essere moneta unica senza unione fiscale, risponde che “per un migliaio di anni in Europa è stata utilizzata la stessa moneta, l’oro, senza unione fiscale”. L’elemento cruciale non è nemmeno l’unione bancaria in sé, ma il fatto che “le banche private siano schermate dai default sovrani, aspetto che l’attuale unione bancaria europea non garantisce. I cittadini greci non possono depositare i propri risparmi in una banca tedesca, a meno che non siano ricchi a sufficienza da avere una casa e un indirizzo in Germania. E se una banca greca fallisce, un istituto italiano non potrebbe acquisirla, non potendosi liberare dei bond governativi greci e quindi offrire depositi sicuri ai cittadini locali”. Si può condividere la moneta unica e lasciare separati i bilanci pubblici, insomma, “soltanto se si accetta di lasciar fallire gli stati sovrani”, è il ragionamento di Cochrane.
La crisi greca è andata troppo in là per applicare questo principio? Cochrane non ne è convinto: “Per mantenere comunque il paese nella moneta unica, l’Europa potrebbe scegliere di prendere in gestione le banche greche, assegnare quelle insolventi a qualche grande istituto internazionale che possa gestire le sue nuove sussidiarie elleniche al di fuori della normativa locale”. A quel punto si potrà “lasciar marcire l’attuale Pubblica amministrazione greca, facendola fallire, negandole di fatto la possibilità di indebitarsi sul mercato dei capitali finché non accetterà un nuovo programma di aiuti condizionati”. Addio Tsipras, salviamo solo le tue banche per mantenere integra la moneta unica: come linea da tenere non sarà popolarissima, ma per l’economista è l’unica possibile.
D’altronde una rottura completa dei negoziati e l’uscita dall’euro di Atene – che secondo Simon Nixon del Wall Street Journal sarebbero a questo punto più coerenti con il pensiero di Tsipras di quanto non lo sarebbe un compromesso – per Cochrane equivarrebbero a “un disastro”. “I problemi del paese non dipendono da una valuta troppo forte. Dipendono da una regolazione asfissiante, dalla corruzione, in generale dalle difficoltà che s’incontrano per avviare e gestire un’impresa privata. Non esiste in natura un tasso di cambio al quale i dipendenti pubblici greci possano produrre Porsche ed esportarle verso Stoccarda”. Cochrane, in caso di uscita, prevede piuttosto l’istituzione di un sistema con “due valute”: “Le dracme per pagare i dipendenti pubblici e i pensionati. E poi gli euro che tutti quelli che potranno – dagli albergatori ai ristoratori, passando per gli esportatori – cercheranno di arraffarsi. Settore pubblico e pensionati saranno dunque impoveriti, e coesisteranno con un mercato nero dominato da euro in contanti. E tutto questo assomiglia più a Cuba, al Venezuela, al massimo all’Argentina, non certo alla Svizzera. Dubito che le persone si azzufferanno per comprare le dracme e investire in Grecia, come succede col franco svizzero”.
Tutto ciò sarebbe disastroso per il popolo greco, insiste l’economista, ma certo “conterrebbe un’utile lezione per l’Europa e per l’America – conclude Cochrane – La lobby dei Krugman, degli Stiglitz, dei Piketty in questi mesi ha cantato a voce così alta le meraviglie di un’uscita dall’euro e di una svalutazione, che sarebbe utile ricordare ancora una volta quanto è dannoso un isolamento di questo tipo. Sembra che il fantasma di Adam Smith debba risorgere almeno una volta nel corso di ogni generazione, per mostrarci la Germania dell’est contrapposta a quella occidentale, poi la Corea del nord a fronte della Corea del sud, e oggi la Grecia. Ricordandoci quanto siano terribili certi regimi economici”.
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