Contro il deal iraniano. Per i falchi americani il negoziato è “un giorno della marmotta” perfetto
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Ancora tempo a Vienna. Ma la visione di Obama ha azzerato il dibattito delle idee. “I liberal sono finiti”, dice Ledeen
Il tavolo negoziale a Vienna (foto LaPresse)
di Mattia Ferraresi | 09 Luglio 2015 ore 20:41
New York. Un’altra giornata di negoziati, un’altra estensione – questa volta di quattro giorni – altre parole piene di “real progress”, come ha detto John Kerry. Il politologo Walter Russell Mead aveva ottime ragioni per chiamare la sessione di negoziati con l’Iran “il giorno della marmotta”, la giornata che nel film con Bill Murray si ripete all’infinito, eternamente identica a se stessa. All’Iran questo plot circolare non dispiace, “e ormai è chiaro da tempo che mentre la Casa Bianca ha fretta di raggiungere una conclusione, gli iraniani sono contenti di continuare a fare girare la ruota”, scrive. Per l’intellettuale conservatore Michael Ledeen, critico indefesso di qualunque accordo con i nemici dell’America, “a Vienna l’Iran non siglerà alcun accordo, per ordine della Guida suprema Khamenei”, il quale vuole ottenere un paradossale “no deal deal”: l’accordo di non trovare alcun accordo, limitandosi a prendere altro tempo, a rimandare, a vivere di sospetti e improvvisi riavvicinamenti saltando di scadenza in scadenza. Un giorno della marmotta perfettamente pianificato. Ledeen è un esemplare di falco diventato piuttosto raro nell’habitat di Washington. La pattuglia degli internazionalisti liberal contrari alle trattative con qualunque regime autoritario, e specialmente con le teocrazie apocalittiche che vogliono dotarsi di armi atomiche, è divisa e in rotta, alcuni sono allineati sul pragmatismo obamiano, altri confinati in riserve ideologicamente irrilevanti. Qualche voce fuori dal coro c’è, ad esempio Leon Wieseltier, ma la nota dominante fra gli intellettuali liberal riflette lo zeitgeist della mano tesa alle canaglie. Anche le ardenti tirate antiautoritarie di Samantha Power sono state inghiottite dai calcoli politici e dalle regole felpate della diplomazia.
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Ledeen dice al Foglio che “gli intellettuali liberal sono finiti perché non vogliono guardare la realtà, vivono in una rappresentazione illusoria in cui tutte le visioni possono essere in qualche modo riconciliate. Ma l’obiettivo finale dell’Iran è distruggerci e distruggere Israele, non fare accordi o negoziare i termini di una convivenza. Khamenei sa benissimo che l’America in questo stato è desiderosa, anzi ansiosa di trovare un accordo, e sfrutta quest’ansia a suo vantaggio, alimentando dialoghi che hanno il solo scopo di rimandare il problema”. Anche chi si oppone per principio alla trattativa “ora preferisce allinearsi con Obama, che si sta comportando come un ragazzino innamorato che continua a corteggiare la ragazza che gli ha detto di no: una posizione irrazionale e di estrema debolezza”. Un gruppo bipartisan di accademici, diplomatici, militari e politici ha di recente firmato una lettera del Washington Institute for Near East Policy che contiene sostanziali critiche ai termini dell’accordo sul tavolo. Non si tratta però di una critica all’idea di un accordo con il nemico, quanto di un elenco di correzioni – talvolta molto profonde – dei termini dell’attuale negoziato.
L’idea è che “no deal is better than a bad deal”, ma si coltiva la speranza che un buon accordo sia effettivamente possibile, con un accorto sistema di garanzie eppure senza escludere categoricamente la possibilità che Teheran arrivi, un giorno, alla Bomba. Concessioni immediate in cambio di una vaga promessa. Oltre a cinque ex consiglieri di Obama, fra i firmatari della lettera ci sono anche il generale David Petraeus e l’ex consigliere della Sicurezza nazionale di Bush, Stephen Hadley, falchi che hanno fatto il nido su alture più moderate. A presidiare la fortezza degli intransigenti, quelli che non accettano un accordo con l’Iran proprio per la natura del regime, per la sua strutturale inaffidabilità e i secondi fini che occulta, è rimasto il gruppo neoconservatore di Bill Kristol e Stephen Hayes, rappresentato al Congresso dal giovane e agguerrito senatore Tom Cotton. Charles Krauthammer, opinionista neocon, dice che “il diavolo non è nei dettagli ma nell’intera concezione di un accordo che porterà l’Iran alla Bomba”. L’analista Michael Doran mesi fa ha spiegato in un dossier che il giorno della marmotta non è il frutto di circostanze complicate, ma lo svolgimento delle premesse dell’ideologia obamiana. La conclusione logica di una visione del mondo, non un complicato incidente di percorso.
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