Che lezione arriva dall'Inghilterra per la sinistra Europea. Disastro Labour, 100 seggi in meno rispetto ai Tory, Miliband si dimette.

La sconfitta della veterosinistra. Sei mesi fa, l’ex premier laburista Tony Blair disse: “Questa elezione sarà una di quelle in cui una sinistra tradizionale si scontra con una destra tradizionale, e il risultato sarà quello tradizionale

di Paola Peduzzi | 08 Maggio 2015 ore 18:10 Foglio

Milano. Sei mesi fa, l’ex premier laburista Tony Blair disse: “Questa elezione sarà una di quelle in cui una sinistra tradizionale si scontra con una destra tradizionale, e il risultato sarà quello tradizionale”. Blair intendeva: vinceranno i conservatori perché la sinistra che rifiuta di uscire dai suoi schemi antichi non ce la può fare, ma la sua dichiarazione fu presa come il solito sgarbo da parte del New Labour scartato dal leader Ed Miliband, da sempre orgoglioso di aver “voltato pagina” rispetto a quella stagione. Ora che Miliband ha preso quasi cento seggi in meno rispetto ai conservatori (232 vs 330), ha visto cadere sul campo il suo consigliere in chief, il “bulldog del keynesismo” Ed Balls, e il capo della campagna elettorale Douglas Alexander, e si è dimesso, le parole di Blair non suonano più come un dispetto. “He had a point”, dice un commentatore che, come tutti i colleghi, oggi preferisce non mostrarsi troppo. Miliband ha deciso di spostare a sinistra il Labour, rinunciando a qualsiasi rivisitazione della “big tent” che determinò il successo laburista degli anni Novanta, e navigando in questo spazio più ristretto non ha saputo convincere gli inglesi di avere visione del paese e competenza economica. Gli elettori hanno sempre ragione, recita il mantra degli spin doctor, e se perdi devi ammettere la sconfitta e cambiare strategia, ma Miliband non ha voluto riconoscere gli errori del governo laburista di Gordon Brown, “ha passato cinque anni a convincere gli inglesi che si erano sbagliati”, scrive Robert Shrimsley sul Financial Times. Così questo Labour ha perso in modo più brutale di quanto già avesse perso Brown. Oltre ad aver ristretto il target da conquistare, Miliband ha anche riportato il partito alla visione degli anni Settanta, convinto com’era che ci fosse un parallelo tra la crisi di allora e quella di adesso: bisognava fare una rivoluzione come la Thatcher, ma di sinistra. Così il Labour si è rifugiato nella retorica accademica e veterolaburista della diseguaglianza e dell’anti mercato, prediligendo lo statalismo, e quando, a poche settimane dal voto, ha deciso di occhieggiare all’austerità con la promessa di non proporre spese senza coperture, ha ottenuto solo confusione.

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Da sinistra dicono che sono i vecchi tic blairiani ad aver determinato la sconfitta – i più radicali hanno in mente la corsa per la leadership, ne vogliono un altro come loro, “they just don’t get it” – quando è piuttosto evidente che la sinistra che si rimangia la sua parola progressista, riformista e mercatista non vince le elezioni. Non è un caso che le sinistre al potere in Europa, quella italiana e quella francese, siano tacciate dagli oppositori interni, innamorati di Occupy Wall Street, di Piketty e di Syriza, d’essere di destra (i socialisti francesi se la passano male comunque, sono già stati ampiamenti puniti nelle urne).

Ora comincia la gara alla successione di Miliband, c’è già chi parla di una vendetta pronta dei blairiani, si fanno nomi secondo le linee che hanno diviso il Labour negli ultimi anni, dall’astro nascente Chuka Umunna fino alla moglie di Balls, Yvette Cooper, passando dal fratello tradito David Miliband, ma non basta cambiare leader se non si cambiano le idee. A sentire le ultime parole di Ed Miliband, la strada pare lunga: “Abbiamo perso le elezioni, ma i temi della nostra campagna non scompariranno. Il problema della diseguaglianza non scomparirà. E’ la sfida del nostro tempo, la battaglia continua. Chiunque sarà il nuovo leader, so che il Labour continuerà a insistere per avere un paese che ancora una volta lavora per i lavoratori”.

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