La guerra di Gaza. Quando il Papa dice «genocidio», lo sciocco guarda il Papa
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Dovremmo riconoscere la tragica simmetria tra chi pensa che dopo il 7 ottobre Israele non avesse diritto di fare nulla e chi crede abbia diritto di fare tutto,
Francesco Cundari 18.11. 2024 linkiesta.it
scrive Francesco Cundari nella newsletter “La Linea”. Arriva tutte le mattine dal lunedì al venerdì più o meno alle sette
Le anticipazioni del nuovo libro di Papa Francesco («La speranza non delude mai. Pellegrini verso un mondo migliore», a cura di Hernán Reyes Alcaide, casa editrice Piemme), pubblicate ieri dalla Stampa, hanno riaperto il dibattito sulla guerra in Medio Oriente, toccando un punto delicatissimo come la legittimità del termine «genocidio» per descrivere quello che Israele sta facendo a Gaza. Queste le parole del papa: «A detta di alcuni esperti, ciò che sta accadendo a Gaza ha le caratteristiche di un genocidio. Bisognerebbe indagare con attenzione per determinare se s’inquadra nella definizione tecnica formulata da giuristi e organismi internazionali».
In verità, come è noto, sulla questione si sta già indagando, eccome, da quando il Sudafrica ha portato Israele davanti al Tribunale internazionale dell’Aia proprio con l’accusa di genocidio. Ma è evidente che l’intervento del Papa, messo nero su bianco in un libro, non affidato a qualche dichiarazione improvvisata, acquista un particolare rilievo perché contiene quella parola, indipendentemente dal modo più o meno accorto in cui è stata formulata e contestualizzata.
Ammetto che la mia considerazione di Papa Francesco, e in particolare dei suoi giudizi relativi alla politica estera, è precipitata sin dalle sue prime dichiarazioni relative alla guerra in Ucraina, ormai quasi tre anni fa, e non è più risalita (anzi, non nascondo che un fremito d’indignazione mi scuote ogni volta che lo sento parlare della «martoriata Ucraina»).
Ancora meno mi piacciono tutti quelli che dal primo giorno della guerra di Gaza, come se non aspettassero altro, hanno cominciato a gridare che gli israeliani stavano commettendo un «genocidio», perché era fin troppo evidente che era proprio così: non aspettavano altro che potere finalmente rovesciare sugli israeliani – cioè sugli ebrei – l’accusa su cui si fonda storicamente il rigetto dell’antisemitismo in occidente e in ogni paese civile. Ma se vogliamo sforzarci di essere obiettivi e razionali – premessa che di questi tempi, mi rendo conto, taglia fuori quasi tutti – dovremmo riconoscere l’esistenza di una inquietante simmetria: da un lato coloro che non hanno aspettato un giorno per gridare immediatamente al genocidio, decisi a dare per buona qualunque cifra e qualunque accusa proveniente da Hamas, nella convinzione che dopo il 7 ottobre Israele non avesse diritto di sparare un solo colpo nemmeno per tentare di salvare gli ostaggi; dall’altro coloro per cui non sembra esserci limite alla legittima risposta israeliana, nella convinzione che dopo il 7 ottobre Benjamin Netanyahu sia autorizzato a fare praticamente tutto.
Ma più il tempo passa, più Israele continua la sua offensiva, più sale il numero delle vittime, comunque le si conteggi.
Di conseguenza, anche le accuse che un anno fa potevano apparire più esagerate, si fanno giorno dopo giorno più credibili, mentre la posizione del governo Netanyahu si fa sempre meno difendibile e l’isolamento di Israele più completo e soffocante.
Le parole del Papa andrebbero considerate soprattutto come il dito che indica la luna, cioè questa pericolosissima spirale, che gli amici di Israele per primi dovrebbero osservare con preoccupazione