Rien ne va plus. In Francia la demonizzazione del lavoro ostacola la riforma delle pensioni
- Dettagli
- Categoria: Estero
Emmanuel Macron vorrebbe alzare l’età della pensione di vecchiaia da 62 a 64 anni, ma il 60 per cento dei francesi considera il proprio impiego «dannoso per la propria salute mentale»
Carlo Panella 10.2.2023 linkiesta.it lettura3’
Il lavoro non va più di moda in Francia. Anzi, l’ultima moda è sostenere che il lavoro fa male, “non si porta”, è trash. Sbriciolate le ideologie marxiste, liberali e weberiane, il lavoro e la fatica sono spesso ripudiati come valori negativi. Sotto i cieli transalpini pare proprio che non creino più valore, quasi che la ricchezza, e il Prodotto interno lordo, si creino da soli.
È un processo non solo di normale e giusta aspirazione alla liberazione dalla schiavitù del lavoro, ma proprio di definizione di un’ideologia che disprezza il lavoro in sé, come danno assoluto, non come porta per l’affermazione del homo faber. È un ideologia di liberazione, di emancipazione dal lavoro, ci spiegano i sociologi francesi, che viene da lontano, dalle 40 ore settimanali stabilite nel 1936 dal Fronte Popolare di Léon Blum, dall’abbattimento dai 65 ai 60 anni per le pensioni voluto da François Mitterrand nel 1982, dalle 35 ore settimanali imposte nel 2000 dal governo socialista di Lionel Jospin.
In Francia si respira dunque in queste settimane una certa e diffusa aria di criminalizzazione del lavoro che emana dalla massiccia mobilitazione popolare che paralizza il paese contro la riforma delle pensioni voluta da Emmanuel Macron che porta l’età della pensione di vecchiaia da 62 a 64 anni.
Beninteso, la larga partecipazione agli scioperi e alle manifestazioni è motivata da molti fattori diversi che poco hanno a che fare con le pensioni e molto con la ribellione contro gli effetti pesanti della pandemia Covid, con i riflessi negativi della guerra in Ucraina, con l’impennata dell’inflazione e addirittura con lo scontento contro un presidente gelido e scostante, non empatico col popolo quale è Emmanuel Macron. Rabbia sociale diffusa, dunque. Ma stupisce il fatto che oggi nelle motivazioni del rifiuto all’innalzamento dell’età pensionabile in Francia emerga spesso un elemento nuovo: il lavoro inteso come disvalore.
Le Monde, quotidiano più che progressista, coglie il momentum e pubblica con rilievo un appello con decine di firme che proclama: «Non ne possiamo più di questo mondo che glorifica il ’valore del lavoro’ ma che crea esclusione e desertifica il pianeta». I firmatari condannano una riforma che «prolunga una logica produttivistica che ha già troppo distrutto la Terra e coloro che la abitano. Noi vogliamo lavorare meno e meglio; noi vogliamo avere tempo per vivere».
Il sociologo Jean Viard sostiene che questo crescente disprezzo per il valore positivo del lavoro differenzia la Francia dalle altre nazioni per una ragione ideologica le cui radici hanno un peso quasi secolare: «La Francia è il paese che ha cantato e magnificato il non-lavoro. La Francia ha costruito il mito delle 40 ore del 1936, il mito dell’abbattimento di cinque anni, da 65 a 60 dell’età pensionabile del 1982 e questo mito non vive solo a sinistra, ma in tutta la società e se tu chiedi a qualcuno “a quale età tu pensi che non sarai più in grado di lavorare? Un francese ti risponde “prima dei 60 anni”. Negli altri paesi ti rispondono “quasi a 70 anni”. Abbiamo un immaginario del lavoro come luogo di sofferenza che non ritroviamo in tutti i paesi. Al fondo viviamo una specie di rifiuto del lavoro che si è sviluppato nella società francese, uno dei grandi miti che hanno innervato la nostra gauche e che l’estrema destra tenta di recuperare».
Denis Maillard, giuslavorista, ha pubblicato uno studio intitolato non a caso “Le sofferenze di una stanchezza che chiamiamo lavoro”, pubblicato dalla Cfdt, il più grande sindacato francese, che ricorda che più del 60 per cento degli intervistati da Ipsos considera il proprio lavoro «dannoso per la propria salute mentale» ma che anche il 50 per cento lo considera «dannoso per la propria salute fisica». Maillard cita quindi uno studio sempre di Jean Viard che attesta che il fuori-dal-lavoro struttura e plasma ormai il concetto stesso di lavoro; il lavoratore cioè si intende innanzitutto e solo come un consumatore di beni e piaceri o conoscenza e mal sopporta la fatica necessaria a produrre reddito per pagarsi questi consumi.
D’altronde non è un caso che mentre in Italia la risposta di Sanremo all’ondata di scioperi del 1969 è stato il «Chi non lavora non fa l’amore» di Adriano Celentano, in Francia Henry Salvador già cantava «Il lavoro è la salute. Non far niente è conservarla».