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Lezioni inglesi per l’Italia dei pensionati dove si parla solo di pensioni
di Marco Valerio Lo Prete | 12 Novembre 2015 ore 19:44 Foglio
Il tasso di disoccupazione inglese, a novembre, è sceso al 5,3 per cento, mentre un anno fa era ancora al 6 per cento (comunque la metà dell’attuale 11,8 per cento italiano). Ma come spesso sottolineano gli analisti, questo indicatore racconta solo in maniera parziale lo stato di salute del mercato del lavoro di un paese. Si prenda quindi il tasso di occupazione, ovvero la percentuale di persone con un’età compresa fra i 16 e i 65 anni che effettivamente lavorano. Nel Regno Unito il tasso di occupazione è arrivato al 73,7 per cento, cioè il livello più alto dal 1971 a oggi. In Italia, per fare un raffronto, lo stesso tasso è al 56,3 per cento; ciò vuol dire che nel nostro paese poco più di una persona su due, tra quelle in età lavorativa, effettivamente lavora. Crisi o non crisi, rimaniamo insomma uno dei paesi con il mercato del lavoro meno “affollato” d’Europa.
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Tanti disoccupati da un lato, pochi occupati dall’altro: ci sarebbe di che discutere. Eppure, come dimostrato da ultimo dalle polemiche sul dossier dell’Inps a guida Tito Boeri, il nostro dibattito pubblito continua a essere quasi monopolizzato dal tema pensionistico. Non di pensioni future, parliamo, che pure ce ne sarebbe bisogno visto che un predecessore di Boeri all’Inps, una volta, si fece sfuggire che se gli attuali giovani lavoratori conoscessero la consistenza dei loro futuri assegni pensionistici “scoppierebbe un sommovimento sociale”. Tutt’altro, ci accapigliamo soltanto sulle pensioni attuali (che già impegnano quasi un terzo della spesa pubblica annuale), e tutt’al più di come avvicinare il traguardo della pensione per quanti più italiani possibile. Risultato: in Italia spendiamo miliardi di euro per sostenere una platea in continuo ampliamento di “esodati” o per consentire forme di pensionamento anticipato in deroga alla legge Fornero del 2011 (come anche il riformista Boeri vorrebbe fare). In un paese in cui si lavora poco, come dimostrano i nostri tassi di occupazione, stiamo soltanto aggravando l’insostenibilità della nostra previdenza. Eppure non mancherebbero, anche qui, lezioni inglesi cui ispirarsi.
Un sondaggio del Daily Telegraph dimostra che quasi 5 milioni d’inglesi – il 25 per cento in più del 2012 – vogliono lavorare almeno fino all’età di 70 anni. Intendono farlo per convenienza, cioè per rimpinguare l’assegno pensionistico, e spesso per passione. Questo accade nel paese in cui già oggi il tasso di occupazione è di 16 punti percentuali più alti del nostro. La distanza, prim’ancora che nelle percentuali, è culturale. A Londra può capitare infatti di sentire un ministro dire pubblicamente “basta lamentele, lavorate sodo, lavorate di più, l’unica ricetta per la crescita è lavorare duro”, e poi invitare i giovani a “saltare sull’aereo, fare impresa all’estero, studiare all’estero”. E’ lo stesso Regno Unito che, in compagnia degli Stati Uniti e di altri paesi di antica industrializzazione, ha addirittura abolito il tetto anagrafico raggiunto il quale si va automaticamente in pensione. E’ la dimostrazione che mandare in pensione l’età pensionabile, pure dal punto di vista legale, sarebbe un modo utile per ricalibrare il confronto pubblico, iniziando a discutere responsabilmente del lavoro che manca oggi e delle pensioni delle future generazioni.
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