Caro La Malfa, Keynes è morto. Anche politicamente
- Dettagli
- Categoria: Economia
Giorgio La Malfa riscopre la "sinistra". Ma piuttosto che a Keynes e alla sua "impotenza", inattualità e impossibilità nel mondo cambiato di oggi, le politiche anticrisi sono costrette, invece, a ricercare soluzioni nelle teorie e nello strumentario opposto al keynesismo
di Umberto Minopoli | 12 Novembre 2015 ore 13:47
Giorgio La Malfa riscopre la "sinistra". E ciò' perché essa, per la verità alcuni suoi azzardati esponenti hard, Fassina e D'Attorre, pomposamente gratificati della rappresentatività del fardello della "sinistra", riscoprono Keynes. E avendo scritto di recente un bel libro su Keynes, brillantemente recensito da Stefano Cingolani su Il Foglio, La Malfa rintuzza alcune ragionevoli critiche di Giuliano Ferrara al keynesismo riscoperto della hard left. Una cosa che sembra piuttosto, mi si perdoni la bestemmia, un cavallo di ritorno. E fuori tempo.
ARTICOLI CORRELATI Bisogna ascoltare i borghesi per capire Renzi e il club dei suoi nemici di sinistra Capitali mobili, stato pesante e sindacati rendono off limits la “Teoria generale” Caro Ferrara, non aver paura di Keynes, né della sinistra Keynes è vivo e lotta con noi
In primis: La Malfa, un po' narcisisticamente, si illude. Non credo che Fassina chieda, come lui scrive, "lumi" a Keynes (mediato da La Malfa). Piuttosto la sinistra kalimera i lumi li chiede, al think thank di economisti (da Stiglitz a Piketty passando per Krugman e Varoufakis) niente affatto keynesiani di scuola, portatori di ricette disastrose dove applicate e mossi da una sola prospettiva chiara: scassare l'euro e i suoi precetti francofortesi (nel senso della banca). Una cosa, mi pare, ampiamente derubricata, ormai, dal buon senso. Specie dopo che la Grecia si è premurata di provare che le soluzioni di questo club di economisti "non austeri" porterebbero all'economia di guerra piuttosto che a combatterla, come intendeva invece fare il buon Keynes. La Malfa ricorda a Ferrara le assunzioni fondamentali (un po' scolastiche, mi si consenta) di quello che è poi diventata la vulgata del keynesismo come dottrina politica della sinistra "antiliberista": la critica alla "mano invisibile" di Smith e della "legge di Say" dell'autoregolazione dei mercati e la conclusione della Teoria generale secondo cui, nei momenti di tempesta e di crisi, il mercato debba essere guidato dalla "azione collettiva" (in senso keynesiano, lo Stato).
Anzitutto: perché usare oggi, chiedo a La Malfa, tale termine, "azione collettiva" al posto di quello, più prussiano forse, di Stato e politiche pubbliche? Puzza di astrattezze soreliane e di concessione, linguistica ed evocatica, ai nuovi amici della sinistra hard. Il più sobrio termine "Stato", in senso keynesiano, evoca cose e strumenti concreti e percettibili: politiche di bilancio, spesa pubblica, investimenti pubblici, politiche fiscali, ecc. L'"azione collettiva" come guida dell'economia per regolare i mercati, mi perdoni La Malfa, evoca piuttosto oscurità, disastri costruttivisti e aberranti esperimenti sociali di utopie dannose dell'ultimo Novecento. E qualche inquietudine.
Fossi in La Malfa, proverei poi a dimenticare il viaggio in Russia di Keynes del 1925 e la sua scoperta del "fervore" religioso collettivista. Che lo avrebbe convinto della superiorità regolatrice dello Stato rispetto alle miserie del mercato. Pessima citazione. Non gli fa onore. Intruppa Keynes nel club di quella disprezzabile intellettualità liberale occidentale che, negli anni Venti e trenta, fece viaggi nell'inferno sovietico per non accorgersi del diavolo. E che anzi, stupidamente e per spaventosa cecità, lo nobilitò.
Sarà perché noi, io e Ferrara per esempio, ci siamo dovuti sobbarcare, in gioventù, spaventosi manuali di storia sovietica ma il 1925 era tutt'altro, in Russia, che epoca di fervore religioso "collettivista". E' l'epoca, invece, di una spaventosa e sorda lotta politica e guerra civile. In cui ferventi estremisti di sinistra, da Trotszky a Zinoviev, fermi al dogma statalista e collettivista della rivoluzione, che stava riducendo in miseria primitiva il popolo russo, si opponevano agli assertori della timida Nep, "nuova" politica economica, che con il migliorista Bucharin, disperatamente, cercavano di arginare miseria e guerra civile introducendo qualche... "elemento di mercato" in quell'economia di collettivismo ingenuo distrutta dalla miseria. Stalin poi, successivamente, chiuderà a modo suo il match: fucilando e ammazzando tutti i giocatori, chiudendo la Nep e dichiarando vincitore lo statalismo e il collettivismo (nella sua versione).
Forse Keynes, con la sua intelligenza, avrebbe potuto percepire la Nep di Bucharin piuttosto che il fervore del povero Trotszky. E percepire la miseria del collettivismo in tempo. Invece che tornare entusiasta. E, forse, ne avrebbe tratto conseguenze un po' più complesse sul valore regolatorio dell'azione "collettiva". Peccato.
Quanto alla attualità di Keynes: ne stiamo parlando nel 2015 e non nel 1936. Di mezzo c'è poco meno di un secolo intero. Che imporrebbe un bilancio delle politiche keynesiane. Piuttosto che la loro riproposizione e attualizzazione "scolastica".
Se nel 1919 e nel 1936 ( e nel 1945 e nel 1958 ) si poteva discutere dell'intervento keynesiano pubblico (in mercati ancora chiusi, saturi di domanda di beni inespressi e regolati dalla sovranità nazionale sul bene monetario) come antidoto alle crisi e stimolo alla ripresa, dopo un secolo di applicazione di tale "interventismo" keynesiano, lo schema sembra essersi rovesciato: noi oggi dovremmo parlare, piuttosto, delle impotenze e delle asfissie delle politiche pubbliche di regolazione dei mercati e delle ricette stataliste. Che si rivelano, ormai, inadeguate alla realtà della globalizzazione dei mercati, della moneta e della finanza. E rese impossibili e inapplicabili, lo diceva bene Cingolani nel commento al libro di La Malfa, dalla crisi dei debiti sovrani e di quella fiscale del welfare. Il keynesismo, spiace dirlo, è morto. Forse, anche, in virtù dei successi (in una parte del mondo, la nostra) delle sue ricette. Che ci hanno regalato una società più ricca e socialmente sopportabile. Ma ormai del tutto inservibili nella nuove condizioni di oggi. Riproporne l'attualità mi sembra, francamente, nostalgia. Inefficace ed ineffettiva. A ben vedere il senso di oggi, dopo un secolo di ricette Keynesiane sembra anzi essere piuttosto quello della correzione critica della strumentazione keynesiana. La realtà di oggi è quella dei limiti dell'intervento pubblico, delle ricette stataliste e dell'impotente strumentario keynesiano piuttosto che quella dei limiti del "mercato" che, invece, si universalizza e si globalizza. E crea nuove domande e nuovi problemi, rispetto ai quali le ricette della Teoria Generale sembrano come la medicina prima della scoperta degli antibiotici.
Se "sinistra" per la Malfa (ma perché cotanto riconoscimento ai giovani Fassina e D'Attorre?) significa questo, parliamo veramente di archeologia. La Malfa (e i suoi giovani "illuminati" di sinistra) si astengono, per la verità, dal tradurre la vague di Keynes in ricette per l'oggi. Si limitano ad evocare i "lumi" di Keynes. Giusta pudicizia. Dovrebbero spiegarci come potremmo, oggi, spendere in deficit, alzare le tasse, imporre protezionismi, stampare moneta. Altro che Keynes e le sue ricette contro l'economia di guerra! La Malfa e Fassina porterebbero in economia di guerra un paese in pace. Piuttosto che a Keynes e alla sua "impotenza", inattualità e impossibilità nel mondo cambiato di oggi, le politiche anticrisi sono costrette, invece, a ricercare soluzioni nelle teorie e nello strumentario opposto al keynesismo: politiche dell'offerta per arginare la crisi della manifattura; abbassamento della pressione fiscale per stimolare investimenti privati, politiche dei redditi e della produttività per eliminare le rigidità del costo del lavoro, finanziamento via mercato delle grandi opere per aggirare la crisi fiscale degli Stati e l'impossibilità della spesa in deficit.
Keynes resta una grande lezione, un'ottima lettura per chi ama il capitalismo compassionevole del grande conservatore liberale. Le cui suggestioni, insieme a quelle di Beveridge e dei fabiani inglesi, animarono la cultura riformista della socialdemocrazia europea. E non quella, come concede La Malfa, della sinistra epigone del comunismo. Si tratta, purtroppo, di una storia nobile ma chiusa, finita, inservibile oggi.
Infine La Malfa chiude il suo articolo con la ovvia picconata alle politiche di Renzi. Anche per dare senso politico alla sua idea di "sinistra" raggrumata in Fassina e D'Attorre. Mi sembra curioso che lo fa usando l'argomento della tassazione. Per imputare, dicendosi d'accordo con Giavazzi, la limitatezza della riduzione di tasse prevista nella legge di stabilità in discussione. Ossevazione del tutto discutibile in base ai numeri reali della manovra. Ma, mi consenta La Malfa, cosa ci sarebbe di "keynesiano" in tale imputazione? Secondo Giavazzi si tagliano poco le tasse perché si taglia poco la spesa pubblica. Dov'é qui Keynes? E che c'entra tutto ciò con D'Attorre e Fassina che le tasse le vogliono aumentare?
Categora Economia