La pasta non sempre parla italiano, oltre il 40% prodotta con grano che arriva dall’estero
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Se fino al 2006 l’Italia primeggiava nella produzione di grano duro il calo di superfici coltivate ha aumentato l’importazione da Paesi con Canada, Stati Uniti e persino dall’Ucraina con minori garanzie sulla qualità della materia prima
31 MAGGIO 2015 LINKEMBED EMAIL Corriere della Sera Francesco De Augustinis
Ogni giorno al Porto di Ravenna sono attraccate diverse navi cisterna, battenti bandiere esotiche come Cuba o Costa Rica, che scaricano dentro immensi silos tonnellate di grano, mais e altri cereali provenienti dal Canada, dagli Stati Uniti, dal Sud America o da altri aree del globo. La città emiliana è solo il più importante punto di ingresso dei cereali nel nostro Paese, ma simili navi raggiungono abitualmente numerosi altri porti dello stivale, come Napoli, Taranto o Palermo, così come carichi di grano arrivano quotidianamente in Italia su ferro o su gomma. Tra i principali cereali scaricati, insieme al mais destinato agli allevamenti, c’è il grano duro, usato in Italia quasi esclusivamente per la produzione di pasta. Se nel 2006 l’Italia ancora primeggiava nella produzione di grano duro con 4,5 milioni di tonnellate l’anno, il calo di superfici coltivate che ha investito il nostro Paese negli ultimi anni lo lascia oggi dietro al Canada, che nel 2014 è arrivato a produrre 4,8 milioni di tonnellate contro i circa 4,1 dello stivale. Poiché il grano duro va ad alimentare l’industria della pasta, una delle più importanti per il nostro export agroalimentare, attualmente la produzione italiana copre solo il 60 per cento circa del fabbisogno. Tutto il resto è grano di importazione.
La pasta è l’alimento base della nostra dieta alimentare. Per questo le idee molto polarizzate che esistono intorno al modo in cui oggi la produciamo sembrano rappresentare una metafora perfetta del dibattito sul modo in cui vogliamo «nutrire il pianeta» negli anni a venire. Da una parte, quelli che sostengono il sistema attuale dove la materia prima, il grano, è considerato una commodity, un bene indifferenziato, né più né meno che il petrolio. Dall’altra, quanti pensano che trattandosi di cibo dovremmo riconsiderare il nostro approccio, riproponendo criteri che rispettino la regionalità e persino la biodiversità del grano. «La pasta italiana è sempre stata fatta con grano importato da Ucraina, Stati Uniti, Venezuela», afferma Roberto La Pira, direttore del Fatto Alimentare, testata specializzata che ha fatto diverse inchieste sulla pasta e sulla provenienza del grano. «Storicamente, nei pastifici di Gragnano a Napoli, ci sono delle fotografie dove si vedono le navi russe che sbarcano nel porto di Napoli dove arrivava il grano. Grano dell’Ucraina, che ha un alto tenore di glutine, come quello che viene coltivato in Canada e negli Stati Uniti e altri Stati e viene importato perché è il grano migliore per fare la pasta italiana». Secondo La Pira, l’importazione di grano, specie d’oltreoceano, è necessaria e auspicabile: perché il grano italiano non arriva a coprire l’intero fabbisogno e per via della qualità. «L’idea che il made in Italy è buono è un po’ da sfatare», afferma La Pira, che spiega come il grano canadese o quello statunitense abbiano un maggiore regime proteico, che permette maggiori livelli di glutine. Una caratteristica che aumenta la capacità di panificazione nelle farine e nella semola, e che nella pasta ha effetti sulla consistenza, trattiene l’amido e permette una maggiore tenuta della cottura. La Pira contesta però duramente l’assenza totale di trasparenza nelle etichette di spaghetti, farfalle e via dicendo. «La gente vuole sapere l’origine della materia prima, dobbiamo anche dirglielo -afferma- e dobbiamo dirgli che in questo caso la pasta è fatta da grano italiano, ma anche... e mettiamo due o tre paesi. È questione di trasparenza».
Diversi pastifici di piccole e medie dimensioni si sono lanciati negli ultimi anni in produzioni «100 per cento grano italiano». Una tendenza in crescita, che ha spinto anche i big player di mercato a creare linee di pasta certificata, come la Voiello o persino il leader di mercato Barilla. Il pastificio Ghigi, nei pressi di Rimini, è uno di questi. Nato per iniziativa di alcuni consorzi agricoli, che coltivano nelle Marche e in Toscana, produce solo pasta 100 per cento grano italiano con forte vocazione all’export. «Ci sarà una ragione perché un’azienda sconosciuta che veniva dalle ceneri di un’azienda fallita, che non aveva mai venduto all’estero, vende in questo momento ai primi tre retailer al mondo, che sono Walmart, Cosco e Kroger negli Stati Uniti», afferma Enrico Sitaro, direttore commerciale dell’azienda. «Abbiamo passato a questi clienti l’idea della sicurezza alimentare che può dare un prodotto come il nostro, insieme a listini interessanti».
Secondo Sitaro, la scelta di utilizzare grano italiano permetterebbe un controllo su tutta la filiera e di avere a che fare con prodotti che hanno meno problemi di “micotossine”, sostanze chimiche tossiche, prodotte da funghi che minacciano le coltivazioni di grano. Questo per fattori climatici diversi, specie in alcune regioni come la Puglia o la Sicilia, e perché il grano italiano non attraversa oceani per settimane all’interno delle navi, esposto a diversi fattori climatici. «I controlli ci sono», sostiene Sitaro, a proposito dei grani di importazione. «Ovviamente c’è una legge europea che ha delle tolleranze sulle ocratossine abbastanza ferree per certi aspetti, anche se hanno aumentato queste tolleranze. Dobbiamo pensare che queste tolleranze siano state date perché entro questi limiti possono non esserci conseguenze. Però io dico che quando c’è una tolleranza, c’è qualcosa che devo approfondire, perché se un prodotto alimentare, anche se nei limiti della tolleranza, mi da un qualcosa che non fa bene alla salute, io sto un po’ attento».
Ad un ulteriore livello di critica rispetto alla moderna industria della pasta, molti esperti ed alcuni produttori criticano l’utilizzo massivo delle stesse tipologie di grani, adottata all’estero come in Italia, rispetto alle decine di varietà che riempivano i campi all’inizio del secolo scorso. Un fattore, secondo i critici, che aumenterebbe la produttività ma anche il proliferare di malattie delle spighe, con un maggiore utilizzo della chimica nei campi. «Non abbiamo bisogno di una pasta che non faccia diventare l’acqua torbida, o di una pizza che non si muove mai nelle mani dei pizzaioli», sostiene Simonetta Nanni, agronoma e “fiduciaria” di Slow Food a Perugia, a proposito dei più alti livelli di glutine prodotti dal grano di importazione. Secondo Nanni, questo è invece un fattore che potrebbe essere dietro il proliferare di celiachie e disturbi alimentari. «Non abbiamo bisogno - afferma- di queste cose, se cominciamo a mangiare la pasta con i grani veri, antichi».
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