Contro il negazionismo economico
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Spesso le decisioni politiche non incorporano le migliori e più aggiornate conoscenze scientifiche. Vale anche, e forse soprattutto, per l’economia. Ci sono tre ricette per evitare che l’opinione pubblica sia vittima di credenze prive di fondamento.
30.03.18 Guido Tabellini www.lavoce.info
9 Commenti
Spesso le decisioni politiche non incorporano le migliori e più aggiornate conoscenze scientifiche. Vale anche, e forse soprattutto, per l’economia. Ci sono tre ricette per evitare che l’opinione pubblica sia vittima di credenze prive di fondamento.
Il negazionismo economico che avanza
Viviamo in un’epoca in cui il progresso scientifico avanza a velocità straordinaria. Eppure, spesso le decisioni politiche non incorporano le migliori e più aggiornate conoscenze, e l’opinione pubblica non solo non è adeguatamente informata, ma non di rado è vittima di credenze errate e in contrasto con il consenso scientifico. Paradossalmente, il fenomeno sembra essersi accentuato con la diffusione di internet.
Il problema esiste in tutti i campi: dalla medicina, alla climatologia, alle scienze sociali. Ma è particolarmente rilevante in economia. Innanzitutto, perché vi sono grandi interessi in gioco. Organizzazioni, gruppi, imprese hanno un forte incentivo a manipolare l’opinione pubblica e a influenzare le decisioni politiche, e spesso vi riescono. In secondo luogo, perché i fenomeni economici e sociali sono estremamente complessi e difficili da prevedere e ciò contribuisce a diffondere l’opinione errata che la scienza economica non abbia nulla di rilevante da dire. Come ha chiesto la Regina Elisabetta, “Perché nessuno ha visto arrivare la (recente) crisi finanziaria?” (in realtà c’è chi aveva lanciato segnali di allarme). Infine, perché le implicazioni pratiche dell’economia riguardano ambiti che sono anche oggetto di visioni ideologiche e di programmi politici. E i dati dicono che spesso le opinioni politiche e i giudizi di valore condizionano anche le credenze individuali circa le conseguenze di specifici interventi o azioni.
Il risultato è che le conoscenze economiche stentano a informare il dibattito politico e l’opinione pubblica è spesso vittima di pregiudizi o credenze che sono in contrasto con il consenso e le conoscenze consolidate della scienza economica. Un recente libro di Pierre Cahuc e André Zylberberg illustra il problema, ne discute le conseguenze e propone possibili rimedi.
Il punto centrale del libro è che negli ultimi anni l’economia ha attraversato una vera e propria rivoluzione. Grazie alla grande disponibilità di dati e a importanti innovazioni metodologiche, la conoscenza economica ora si appoggia su risultati sperimentali o quasi-sperimentali, e l’evidenza empirica svolge un ruolo fondamentale nel guidarne il progresso. Da un lato, questo vuol dire che la conoscenza economica ha ora solide basi empiriche e le sue prescrizioni sono diventate più affidabili. Dall’altro, il metodo sperimentale può essere esteso per valutare le conseguenze di specifici interventi di politica economica, senza dover fare affidamento su ipotesi solo teoriche. Tuttavia, questi progressi spesso sono ignorati al di fuori della disciplina, con la conseguenza che il dibattito di politica economica è di frequente viziato da pregiudizi ideologici. Il libro contiene molti esempi tratti dal dibattito politico ed economico in Francia. Ma il lettore italiano sarà colpito da quanto forti siano le somiglianze con i problemi economici discussi in Italia.
Ad esempio, anche in Italia il pensiero economico è spesso additato come un “pensiero unico”, adagiato sull’ideologia neoliberista che vede il mercato come la soluzione di tutti i problemi. Ma non è così. Innanzitutto, è semplicemente falso che in economia vi sia un’unica visione dominante. Al contrario, spesso gli economisti sono accusati di non essere mai d’accordo tra loro, come ci ricorda la battuta di Winston Churchill: “Se metti due economisti in una stanza, hai due opinioni, a meno che uno di loro sia Lord Keynes, nel qual caso hai tre opinioni”. In secondo luogo, il neo-liberismo non ha nulla a che vedere con il consenso scientifico in economia. Basta ricordare che Jean Tirole ha vinto il premio Nobel in economia nel 2016 per i suoi studi sulla regolamentazione dei mercati. Chi afferma il contrario semplicemente non sa di cosa sta parlando. Il punto è che accusare gli economisti di “pensiero unico” o di “ideologia liberista” è spesso un modo per screditarne gli argomenti, senza entrare nel merito delle questioni dibattute.
I populisti e l’economia
I nuovi movimenti populisti usano spesso questo argomento, anche in Italia. Ciò non deve sorprendere. Sebbene in economia non vi sia un pensiero unico, infatti, vi è comunque uno stock di conoscenze consolidate e non vuote di contenuto. Lo stock di conoscenze molte volte è in contrasto con le ricette populiste. Anche in Italia, il populismo, di destra come di sinistra, spesso avanza proposte semplicistiche e miopi: la moneta fiscale come antidoto all’euro, una flat tax (o tassa unica) al 15 per cento, l’affermazione che un aumento della spesa pubblica finanziato in disavanzo sia compatibile con la discesa del debito pubblico. Queste proposte o affermazioni non stanno in piedi dal punto di vista economico e si scontrano con le conoscenze consolidate degli economisti. Ecco allora che conviene screditare l’economia e accusarla di pensiero unico e ideologico. Diffondere la sfiducia verso gli esperti e le élite, cioè, è un modo per evitare di fare i conti con la realtà. Accade in Francia, come in Italia, in Inghilterra o negli Stati Uniti.
Le analogie tra Francia e Italia non si limitano al carattere generale del dibattito di politica economica e al ruolo degli economisti. Ad esempio, chi invoca una nuova politica industriale in realtà sta spesso cercando protezione dalla concorrenza o sussidi per tenere in vita impese non competitive. Gli interventi per il Mezzogiorno sono l’esempio più lampante degli errori commessi in Italia nel disegnare politiche di sviluppo regionale. Mario Draghi, aprendo un convegno sulle politiche del Mezzogiorno nel 2009, quando era governatore della Banca d’Italia, riassume così i risultati delle ricerche svolte sull’argomento: “Le nostre analisi mostrano che i sussidi alle imprese sono stati generalmente inefficaci: si incentivano spesso investimenti che sarebbero stati effettuati comunque; si introducono distorsioni di varia natura penalizzando frequentemente imprenditori più capaci. Non è pertanto dai sussidi che può venire uno sviluppo durevole delle attività produttive”. Gli studi della Banca d’Italia suggeriscono invece di promuovere politiche generali (istruzione, giustizia, trasporti), con obiettivi riferiti a tutto il paese, cercando però di capire perché le condizioni ambientali rendono la loro applicazione meno efficace in alcune aree. Questa lezione è una diretta implicazione di rigorosi studi empirici sull’argomento. Eppure, è spesso ignorata nel dibattito politico.
Come combattere il negazionismo economico
Ci sono tre ricette per evitare che l’opinione pubblica sia vittima di credenze prive di fondamento, e per avvicinare il dibattito politico alle migliori e più consolidate conoscenze in campo economico.
Prima di tutto, gli economisti non devono vendere false certezze. L’economia ha molte implicazioni rilevanti per la politica economica, e ormai ci sono tante conoscenze pratiche che possono informare le decisioni politiche. Tuttavia, in economia non vi sono leggi universali che valgono con esattezza e precisione e la nostra capacità di prevedere le conseguenze di specifiche azioni è comunque limitata. Far valere il principio di autorità scientifica anche quando non vi sono conoscenze consolidate, o esagerando la portata della nostra conoscenza, è controproducente perché alimenta lo scetticismo e giustifica le critiche ideologiche. Non sempre gli economisti si sono astenuti dal commettere questo errore, anche da noi.
Poi c’è il compito dei giornalisti che devono documentarsi e sapere che non tutte le opinioni meritano lo stesso peso. Nel nome del pluralismo, spesso i media danno visibilità e rilevanza a opinioni palesemente false o contraddette da rigorosi studi scientifici, mettendole sullo stesso piano di affermazioni che invece sono sostenute da un ampio spettro di ricerche e approfondimenti. Questo non vuol dire dare più peso alle opinioni dei docenti universitari, indiscriminatamente. In Italia come altrove, spesso i sedicenti economisti più visibili sui media e più pronti a esprimere un giudizio sono anche quelli meno aggiornati e preparati. Un giornalista deve però saper distinguere tra i ciarlatani e gli esperti, e capire con chi ha a che fare. Nell’era di internet, non è difficile valutare le credenziali di un interlocutore.
Infine, è importante trasmettere all’opinione pubblica l’idea che non esistono ricette semplici o miracoli. Sono decenni che l’economia italiana stenta a crescere, non dà opportunità ai giovani, ha un debito pubblico elevato. Se nessuno si è accorto prima che c’era una scorciatoia per aumentare la crescita, ridurre la disoccupazione o combattere la povertà, quasi certamente è perché quella scorciatoia è un vicolo cieco che non porta da nessuna parte. Anche se è difficile da accettare, probabilmente non vi sono alternative alle riforme scomode e impopolari che molti osservatori esterni ci suggeriscono da tempo.
Commenti
ùHenri Schmit 30/03/2018 alle 13:12 Rispondi
Innanzitutto bisogna distinguere fra analisi di dati e fatti ove si può parlare di verità (coerenza e falsificabilità), e politiche o ricette economiche, sempre solo prudenziali. Gli economisti si occupano pure di alte ancora: Kenneth Arrow ha ricevuto il premio Nobel per un lavoro, base della teoria della scelta collettiva razionale e democratica, di logica pura, in buona sostanza una riformulazione del paradosso di Condorcet, rimasto lui senza premio. Poi gli economisti applicano il loro metodo econometrico al mondo politico, costituzionale e quindi giuridico dove la confusione fra fatti e diritti può essere molto perniciosa.
bob 30/03/2018 alle 12:51 Rispondi
prof la capacità di critica si alleva nelle scuole con determinati percorsi di istruzione fatti, a mio avviso, dando priorità iniziale agli studi umanistici. La scuola intesa come formazione dell' uomo sia nell'apprendimento, del ragionamento della critica analitica è la scuola. Il resto dovrebbero essere corsi di formazione più o meno lunghi fatti successivamente alla scuola. Ma la cultura critica per il potere e come l'aglio per il vampiro
thomas 30/03/2018 alle 12:35 Rispondi
Quanto conta in tutto ciò l'assenza di un sano e vero dibattito sulle riviste accademiche, con editor cecati e monocoli che giudicano per cordate amicali più che per le idee espresse o la qualità del lavoro o, peggio ancora, per opinioni da bar sentite intorno ai caminetti? Quanti sanno con precisione riportare l'opinione dei loro colleghi e l'argomento sul quale quell'opinione si basa, piuttosto che il numero di riviste top collezionate? Mi pare chiaro che a una parte relativamente ampia del mondo accademico non interessi assolutamente nulla del dibattito di politica economica; interessa avere l'American Economic Review per fare carriera. Poi se quello che scrivi è quello che pensi o quello che pensa l'editor non importa granchè. Desolante.
Alberto Olmi 30/03/2018 alle 12:02 Rispondi
Eccellente contributo. Dobbiamo anche ricordare che l'economia è disciplina ad alta intensità epistemologica e assieme strumento di cui amano appropriarsi pragmaticamente le élite; le stesse che in questa fase storica hanno perso grande credibilità. La rivalutazione della prospettiva dell'economia civile e il ritorno a considerare una variabile critica la struttura della governance territoriale nei modelli di sviluppo industriale (Piore, 2017) sono due sintomi che indicano a economisti, accademia e percorsi formativi di attrezzarsi maggiormente a rispondere a nuove sfide. Una formazione di impostazione più umanistica, maggiori strumenti di ricerca sociale anche qualitativa forse possono aiutare oltre i big data.
Franco Tegoni 30/03/2018 alle 11:54 Rispondi
L'idea che non esistono ricette semplici o miracoli dovrebbe essere assunta soprattutto dalla politica, dagli attori della politica. Ma la politica è scomparsa e al posto di veri attori della politica ci sono delle comparse improvvisate. Chi ci potrà salvare dai venditori di pozioni magiche?
Edo Pradelli 30/03/2018 alle 11:22 Rispondi
"......probabilmente non vi sono alternative alle riforme scomode e impopolari che molti osservatori esterni ci suggeriscono da tempo." Quali sono queste riforme?
P. Aghsow 30/03/2018 alle 11:13 Rispondi
Ottimo articolo, come sempre, dell'ottimo Maestro Tabellini, che perfettamente analizza una congiuntura, permettetemi, più intellettuale che economica. Oggi si deve parlare con chi solleva i dubbi per partito preso, birbanti che nascono forse anche per errori del passato, come suggerisce il professore, ma che in mia opinione sguazzano nella loro incapacità di analisi e di apporfondimento. Incapacità ovviamente poi riportata tramite il webbe. Spero che il dibattito sano risorga e che smetta di esistere questa accozzaglia di idee malsane (perchè piaccioni ai più), pregando che non debbano essere confutate perchè verranno applicate. Insomma, spero in una continua discriminazione dei ciarlatani, magari applicata con forza e con determinazione (perchè no, anche per vie politiche) da uomini che conoscono e che hanno un certo carisma. Riportiamo il dibattito sui binari corretti, riportiamo il mondo nella giusta direzione.
P. Aghsow 30/03/2018 alle 11:17 Rispondi
Relativamente a "pregando che non debbano essere confutate perchè verranno applicate" intendevo "pregando non debbano essere confutate dalla realtà stessa nel caso dovessero essere applicate"
Savino 30/03/2018 alle 10:38 Rispondi
L'altro giorno in un mercato rionale ho ascoltato con queste orecchie dire che Alexander Fleming era un cretino mentre Mark Zuckerberg sarebbe un eroe. Guru e stregoni di varia natura hanno usurpato chi ha dedicato una vita allo studio per il progresso e la civiltà.