Ecco il “petrolio” del futuro:
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chi lo controllerà avrà il mondo. Ma non è per sempre
APR 10, 2018 PAOLO MAURI www.occhidellaguerra.it
Cos’hanno in comune il Cile, l’Afghanistan, l’Australia e la Cina? Sono 4 delle nazioni in cuisi trovano le maggiori riserve di un metallo alcalino divenuto molto importante nel mondo moderno per l’utilizzo che se ne sta facendo, un minerale leggero, relativamente abbondante ed il cui prezzo è aumentato del 200% in Cina in un solo quadrimestre nel 2015 in concomitanza con una provvisoria scarsità di approvvigionamento. Questo minerale è il litio e non ne possiamo fare a meno.
In natura si trova sotto forma di brine – ovvero precipitati di soluzioni concentrate – e di minerali come carbonati, idrossidi e inosilicati (come lo Spodumene che arriva principalmente dall’Australia).
La sua produzione è aumentata del 4% su base annua a cominciare dal 2005 e più del 50% di questa risorsa viene consumata dai Paesi asiatici con in testa la Cina che ne è il più grande importatore e trasformatore.
Il litio infatti, grazie alle sue proprietà chimiche come l’elevato coefficiente di reattività elettrochimica, è il metallo utilizzato principalmente per la produzione di batterie ricaricabili. I nostri telefoni cellulari, laptop così come tutti gli utensili da lavoro che non usano l’alimentazione diretta dalla rete elettrica, usano delle batterie al litio. Non solo. I costruttori di autovetture lo utilizzano per le batterie delle auto elettriche e ibride e batterie ricaricabili al litio sono anche presenti in accumulatori di griglie elettriche di grandi dimensioni.
Il consumo globale di litio viene quindi assorbito per il 39% dai produttori di batterie, per il 30% dall’industria del vetro e della ceramica e per la restante fetta in vari settori come quello del trattamento dell’aria, produzione di polimeri o di grassi lubrificanti. Se andiamo ad analizzare meglio il dato sulle batterie scopriamo che queste vengono prodotte per il 25% per l’automotive e per il 19% per cellulari o smartphone; il 16% va a finire nei laptop mentre un altro 16% in biciclette elettriche, sempre più presenti sul mercato. Si calcola che il consumo globale di batterie di questo tipo sia aumentato del 23% l’anno nel periodo che va dal 2010 al 2015 passando dai 21 GWh (Gigawattora ovvero un miliardo di watt/ora) ai 60 GWh per un valore di mercato complessivo, comprendente le batterie ricaricabili e non, pari a 10,7 miliardi di dollari l’anno. Numeri certamente destinati a salire se non altro grazie al solo settore automobilistico che vede progressivamente aumentare la richiesta di vetture ibride o elettriche: +69% nel 2015.
Questo mercato in forte espansione attira investimenti, e gli investimenti aprono nuove frontiere di ricerca, ed ecco perché la Cina, che già detiene la maggior quota del mercato della sua manifattura, sta intraprendendo una vera e propria politica di accaparramento delle nuove fonti di approvvigionamento di minerali “tecnologici” come il litio. La Great Wall Motors, ad esempio, ha rilevato il 3,5% dell’australiana Pilbara Minerals che si occupa prevalentemente dell’estrazione di questo minerale divenuto prezioso ed ha intenzione di raddoppiarne la produzione nell’arco di un anno per far fronte alle maggiori richieste di mercato. Litio ma anche cobalto, altro elemento fondamentale per le batterie, e Pechino anche qui sta assumendo posizioni di forza in tutta la filiera produttiva, come riporta Il Sole 24 Ore in un articolo recente: la Gem, fornitore del gigante delle batterie Catl, ha sottoscritto un colossale contratto con Glencore che prevede la compera di un terzo della sua produzione totale di cobalto in Congo, uno dei maggiori Paesi produttori di questa risorsa, per un totale di 52.800 tonnellate, ovvero pari a più della metà di quanto estratto da tutte le miniere del mondo l’anno scorso.
Non solo litio e cobalto
La rivoluzione elettronica che stiamo vivendo, e che, secondo alcuni, sarà di portata storica almeno quanto quella industriale, sta conducendo allo sfruttamento di risorse minerarie un tempo considerate non economiche costituite, ad esempio, dalle Terre Rare (in inglese REE Rare Earth Elements). Questi elementi chimici, come il lantanio, cerio e neodimio sono fondamentali per l’industria tecnologica ed elettronica moderna e sono presenti in innumerevoli prodotti sia della nostra quotidianità – come schermi tv o hard drive di pc – sia di livello militare o altamente specializzato – come magneti, superconduttori, turbine, laser, sistemi di guida di missili e satelliti.
Da sottolineare che molto spesso la cosiddetta “tecnologia verde”, ovvero le già citate auto elettriche ma anche i pannelli fotovoltaici, è fortemente dipendente dalle Terre Rare e che la lavorazione di questi elementi, dall’estrazione sino al prodotto finito, consuma molta energia ed ha un forte impatto ambientale.
Anche qui la Cina la fa da padrone in quanto è l’unico Paese al mondo capace di controllarne tutta la filiera produttiva: ha infatti tra i più grandi giacimenti di questi minerali e fornisce il 97% del totale mondiale di questa risorsa, facendone praticamente un monopolio seguito, a larghissima distanza, dagli Stati Uniti.
Ecco perché l’Afghanistan, teatro di un sanguinoso e decennale conflitto, diventa particolarmente interessante da questo punto di vista.
Secondo l’Usgs, il prestigioso servizio geologico americano, nel suo sottosuolo ci sarebbero Terre Rare per un valore di circa 1000 miliardi di dollari. In un rilievo effettuato nel 2006, che ha anche individuato depositi stimati in 60 milioni di tonnellate di rame e 2,2 milioni di tonnellate di ferro, nel Paese lacerato dal conflitto coi Talebani ci sarebbero circa 1,4 milioni di tonnellate di Terre Rare come lantanio, neodimio e cerio. Per fare un esempio, nella sola provincia di Helmand, ben nota alla cronaca di guerra, nei depositi carbonatici di Khanneshin, si stima vi siano riserve per 89 miliardi di dollari.
“L’Afghanistan è un Paese che è molto, molto ricco di risorse minerarie” sostiene Jack Medlin geologo e program manager del progetto Us Geological Survey in Afghanistan “abbiamo identificato potenzialmente 24 depositi di livello mondiale”.
Ma anche qui non ci sono solo gli americani pronti a mettere le mani sul tesoro sotterraneo di quella terra martoriata, ci è arrivata ancora una volta la Cina che ha firmato, tramite la sua azienda di ricerca mineraria di Stato, la China Metallurgical Group, un contratto di sfruttamento trentennale del valore di 3 miliardi di dollari con il governo Afghano per l’estrazione di rame dai depositi di Mes Aynak.
L’economia mondiale sta quindi vivendo una rinnovata corsa alle risorse minerarie spinta dalle nuove tecnologie elettroniche e le frontiere di questa corsa arrivano sino all’Artico, che, a causa dei cambiamenti climatici, sta diventando sempre più accessibile alle attività industriali. Lo scioglimento dei ghiacci sta rendendo economicamente sfruttabile non solo il 13% del petrolio globale ed almeno un terzo del suo gas naturale, ma anche un controvalore di circa 1000 miliardi di dollari di oro, zinco, nichel e platino secondo quanto riporta l’Us Government Accountability Office.
Ecco perché le nazioni a ridosso del Circolo Polare Artico, come Russia, Canada, Usa e Norvegia, si stanno dando battaglia in merito alle questioni di sovranità sulla piattaforma continentale, ed ecco perché Mosca, come abbiamo già avuto modo di dire all’inizio di quest’anno, ha deciso di nazionalizzare le rotte commerciali del “Passaggio a Nord Est”.
Attenzione però che nemmeno queste sono illimitate. In un articolo comparso su Nature l’anno scorso, un ricercatore dell’Università del Delaware, Saleem Ali, avvisa che a questo ritmo di sfruttamento i minerali “tecnologici” non saranno sufficienti a far fronte alla richiesta dell’industria, nemmeno considerando l’apporto dato dal riciclo. Allo stesso tempo, come si legge sempre nello studio, la transizione verso una società “low carbon”, richiederà una sempre più vasta quantità di metalli e minerali per le tecnologie pulite ed i ricercatori evidenziano come non siamo equipaggiati per far fronte a questa richiesta addizionale di materie prime. Sempre la stessa ricerca evidenzia come l’idea che si possa utilizzare “qualcos’altro” per far fronte alle carenze di un determinato minerale o per evitare il suo alto costo di mercato, sia un mito da sfatare: ci sono infatti pochissime soluzioni alternative e per alcuni minerali – come per il rame dei cablaggi che è quasi insostituibile ad un prezzo commerciale accettabile – non ce ne sono affatto. Idem per le Terre Rare come il neodimio, iridio e terbio, preziosi non solo perché rari, appunto, ma anche perché assolutamente essenziali.