La miseria sessuale
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Uno scrittore algerino denuncia sul NYT il rapporto malato e ossessivo di molti paesi arabi con il sesso (e le donne). Il divieto di fare l’amore nudi. I corpi da nascondere. L’orgasmo dopo la morte
di Annalena Benini | 16 Febbraio 2016 ore 10:25 Foglio
Il sesso è un grande paradosso in molti paesi del mondo arabo: viene negato, vietato, dissimulato, domina i pensieri inespressi, la vita segreta, le azioni e il disprezzo verso le donne, i sensi di colpa e la rabbia, la demonizzazione dei desideri e anche, a volte, il rapporto con la morte. Un lungo articolo di Kamel Daoud, scrittore algerino, tradotto dal francese (e anche in arabo) per il New York Times racconta “la miseria sessuale del mondo arabo”. Il rapporto difficile con le donne, con la semplice esistenza di un’umanità femminile, e di corpi da nascondere e da umiliare. Le donne in alcuni luoghi sono velate, condannate, uccise a pietrate, ma come minimo vengono accusate di seminare disordine nella società ideale, considerate una fonte di destabilizzazione (“le gonne corte innescano terremoti”), rispettate solo se definite da un rapporto di proprietà: la moglie di X, la figlia di Y.
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Devono rinunciare ai corpi, perché il corpo scoperto rischia di scoprire anche quel desiderio che gli islamisti e i conservatori vogliono negare. “Il desiderio negato pesa sulla mente per la sua stessa dissimulazione. Anche se le donne sono velate, sono al centro delle nostre connessioni, dei nostri scambi e delle nostre preoccupazioni”. La coppia non è più uno spazio di intimità, una questione privata, ma un problema per tutto il gruppo. Si esclude la seduzione, il flirt, si escludono i meccanismi dell’amore che quindi diventano una malattia del pensiero, e il controllo sulla verginità un’ossessione (alcuni pagano i chirurghi affinché “riparino” l’imene rotto). In alcune terre di Allah, scrive Kamel Daoud, la guerra sulle donne e sulle coppie si trasforma in un interrogatorio: durante la caldissima estate in Algeria, brigate di Salafiti e di ragazzi infervorati dai discorsi degli imam radicali e dei predicatori islamici alla televisione escono a controllare i corpi femminili, specialmente quelli delle bagnanti. La polizia controlla le coppie, anche quelle sposate, nei luoghi pubblici. I giardini sono vietati alle passeggiate degli amanti. I banchi vengono segati a metà per impedire alle persone di sedere una accanta all’altra. Il risultato è l’ossessione: fantasticare sulle trappole, sul male dell’occidente, con la sua esposizione alla lussuria, oppure sognare il paradiso islamico e le sue vergini. I predicatori della tivù religiosa, scrive Daoud, hanno il monopolio del discorso sul corpo, sul sesso e sull’amore. “Alcuni dei loro interventi hanno assunto forme mostruose, virando verso una specie di porno islamismo”.
Sono state emesse fatwe grottesche: è vietato fare l’amore nudi; le donne non possono toccare le banane; un uomo può restare solo con una collega solo se lei è stata la sua balia. Gli orgasmi sono accettabili soltanto dopo il matrimonio (ma con tutte le disposizioni religiose che li delimitano) oppure dopo la morte. Ecco perché il sesso è ovunque, scrive Daoud, ecco perché riguarda la morte. Le meraviglie proibite, di cui è vietato, e quindi esasperato, anche solo il pensiero durante la vita, vengono presentate come meritata ricompensa ultraterrena per chi abita “le terre della miseria sessuale”. “La strada verso l’orgasmo attraversa la morte, non l’amore”. Niente a che vedere con Sheherazade, gli harem, la danza del ventre, il kamasutra e tutto “l’orientalismo” affascinante con cui l’occidente si rassicura ed evita di pensare alla condizione delle donne musulmane. Il sesso è malato insistente, pulsa nelle tempie, gonfia le vene e sta diventando una minaccia sempre più vicina.
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