I Sindacati non vogliono che gli insegnanti sappiano l'inglese
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Maestri e professori non sanno le lingue: il ministero, in vista del concorsone, vuole inserire nel quiz due domande in inglese, ma il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione insorge: in un piccolo caso, lo specchio di quel che non funziona nella nostra scuola
di Francesco Cancellato, linkiesta,3 Febbraio 2016 - 11:24
I fatti, prima di tutto: tra poco - doveva essere entro il 1 dicembre, ma le scadenze sono slittate - ci dovrebbe essere un grande concorso per diventare insegnanti nella scuola pubblica. Roba grossa, intendiamoci: si tratta di 63mila nuovi posti di lavoro.
Prima cosa curiosa, ma nemmeno troppo, nel nostro Stato bizantino: prima di pubblicare il bando di concorso, il ministero dell'istruzione deve chiedere un parere al Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione (d'ora in poi, Cspi). Alzi la mano chi ne conosceva l'esistenza? Non preoccupatevi, non è colpa vostra: il Cspi esiste dallo scorso aprile ed è figlio una «grande battaglia politica e giudiziaria condotta in solitudine della Flc Cgil». Così perlomeno si legge sul loro sito.
È un parere non vincolante, nel senso che il ministero è obbligato a chiederlo, ma non a tenerne conto, ma è comunque un parere che ha il suo peso politico, visto che del Cspi fanno parte professori, dirigenti scolastici, personale non docente di tutti gli ordini delle scuole, buona parte dei quali - guarda un po' - sindacalisti. Di fatto, quindi, è una sorta di assemblea sindacale.
Torniamo al concorsone, però. Perché il Ministero si è reso conto che non solo gli studenti, ma anche il corpo docente italiano ha qualche problema con l'inglese: secondo una ricerca della Fondazione Intercultura il 57% dei docenti in servizio valuta bassa o medio-bassa il suo “spoken english” e solo il 18% ha investito in esperienze all’estero. Insomma, nonostante nelle scuole italiane di ore d'inglese se ne facciano parecchie, 8 studenti su 10 pensano che il loro inglese vada migliorato. Il problema insomma è soprattutto nella qualità e non nella quantità dell'insegnamento.
Secondo una ricerca della Fondazione Intercultura il 57% dei docenti in servizio valuta bassa o medio-bassa il suo “spoken english” e solo il 18% ha investito in esperienze all’estero. Nonostante nelle scuole italiane di ore d'inglese se ne facciano parecchie, 8 studenti su 10 pensano che il loro inglese vada migliorato
Gli insegnanti sono parte del problema? A quanto pare, sì. Ma potrebbero anche essere parte della soluzione. E proprio per questo il ministero inserisce nel "quizzone" del "concorsone" - chissà perché quando si parla di scuola tutto diventa “one” - due domande su otto in lingua straniera, che nella scuola primaria e dell'infanzia è obbligatoriamente l'inglese. L'intento è chiaro: favorire l'ingresso nel corpo docente di insegnanti in grado di colmare questo gap formativo.
Tutto giusto? No, per carità. Sul punto il Cspi insorge, chiedendo di «ridurre la verifica di tale competenza rispetto alla valutazione complessiva, di tipo culturale, metodologica e didattica».E di portare da «due a uno i quesiti nella prova scritta in lingua straniera».
D'accordo è più un simbolo che altro. E c'è da credere - o perlomeno sperare - che al ministero rispondano picche. Però è un caso esemplificativo, questo, di come gli insegnanti - anzi, meglio: i loro rappresentanti sindacali nel Cspi - vedano la scuola. In cinque parole: come un posto di lavoro. O, ancora meglio, come un luogo da presidiare, affinché una parte di loro - quelli più anziani e che fisiologicamente hanno meno competenze linguistiche - mantenga una posizione di favore rispetto a insegnanti più giovani e cosmopoliti. Con tanti saluti agli studenti, ai genitori che devono svenarsi per mandare i figli a frequentare costosi corsi d'inglese in scuole costruite ad hoc e alla tanto decantata mobilità sociale che la scuola pubblica, a parole, dovrebbe garantire.
Poi venite a raccontarci delle crepe nei soffitti, delle lavagne di ardesia e dei soldi che mancano per comprare la carta igienica. La cosa più preziosa che manca alla scuola italiana è il futuro. E la colpa per una volta non è della politica e dei ministeri: la colpa è di chi lo sacrifica per preservare il proprio presente