"La truffa del progetto Cirinnà"
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“Il ddl al vaglio del Senato equipara le unioni civili al matrimonio. La questione è antropologica, in gioco ci sono i fondamenti della nostra società”. Parla il giurista cattolico Mauro Ronco
di Matteo Matzuzzi | 04 Febbraio 2016 ore 18:03
Una delle sveglie usate da chi ha manifestato in piazza a favore delle unioni civili nei giorni scorsi. “Si vuole annichilire la famiglia tradizionale”, dice Ronco al Foglio
Le norme giuridiche non si interpretano per il noro nomen, che può essere un nome qualsiasi. Non è importante. Quel che conta è quello che i giuristi chiamano l’effetto di disciplina, e nel caso specifico del disegno di legge Cirinnà le norme che si applicherebbero alle unioni civili sono le stesse che il codice civile prevede per il matrimonio, senza alcuna eccezione”, dice al Foglio l’avvocato Mauro Ronco, ordinario di Diritto penale all’Università di Padova e presidente del Centro Studi Rosario Livatino, che ha presentato un appello contro il ddl Cirinnà sottoscritto al momento da 537 tra presidenti emeriti della Corte costituzionale, magistrati, avvocati e notai italiani. Il documento è stato consegnato lo scorso 26 gennaio al presidente del Senato, Pietro Grasso, e a ogni singolo inquilino di Palazzo Madama in vista del dibattito e del voto. Sarebbe opportuno, sostiene il penalista in un colloquio con il Foglio, “richiamare ciascuno alla responsabilità di quel che dice”, soprattutto dopo che la senatrice Monica Cirinnà, salutando la bocciatura delle pregiudiziali di costituzionalità ha sottolineato ancora una volta in Aula come non vi sia in ballo l’equiparazione tra nozze e unioni civili. Ronco la pensa all’opposto: “L’equiparazione c’è, bisogna rispettare la semantica del diritto e usare i termini appropriati. Il problema è che siamo ormai davanti alla ‘truffa delle etichette’. Si pretende di regolare le unioni civili ai sensi dell’articolo 2 della Costituzione sul riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo, ma in verità, nei fatti, lo si fa appoggiandosi all’articolo 29, che poi è quello che regola il matrimonio”.
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I sostenitori del progetto di legge ricordano la celebre sentenza con cui la Consulta, ormai sei anni fa, chiariva che andavano regolamentati i rapporti di convivenza anche tra persone dello stesso sesso e che quindi non c’è più tempo da perdere. “Certo – risponde il penalista – ma ribadiva anche che tale tipo di formazione sociale non poteva essere equiparato al matrimonio così come previsto dagli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione e quindi che le cosiddete unioni civili devono essere regolate in modo diverso”. Detta così può sembrare una questione meramente giuridica, di cavilli e codici, o politica, con i rimpalli tra gli ermellini della Consulta e i variegati e assai variabili umori parlamentari. Sarebbe un errore madornale, sostiene Ronco: “La questione è tutta antropologica. Si vuole annichilire la famiglia tradizionale. Giambattista Vico scrisse tre secoli fa che le società crollano se vanno in crisi tre categorie fondamentali, e cioè gli altari (e con essi intendeva la religione con la ‘r’ maiuscola, non la singola confessione religiosa), i matrimoni (quindi la famiglia) e le sepolture (cioè le tradizioni patrie, dei padri). Se vengono a mancare questi pilastri, diventiamo liquidi. Lo siamo già, ma non ci rendiamo ancora conto di quanto lo saremmo ancor di più se si verificasse questo cambiamento epocale, che porterebbe la società a perdere ancora di più quel minimo di coesione che ancora c’è e che ad esempio ci ha consentito di resistere alla tremenda crisi finanziaria degli ultimi anni. Già nel caso della fecondazione eterologa si perde il terzo elemento, visto che il padre del bambino non è quello biologico”.
Il disegno di legge Cirinnà, avverte il presidente del Centro Livatino si pone sì un obiettivo chiaro, “ma rimane pur sempre un obiettivo intermedio che fissa le premesse per fini ulteriori, quali ad esempio l’adozione e la filiazione attraverso le tecniche artificiali rese oggi possibili dal progresso scientifico”. Dire insomma che può passare la stepchild adoption ma non l’utero in affitto è una teoria che non sta in piedi: “L’utero in affitto è una conseguenza necessaria alla regolamentazione para-matrimoniale di persone dello stesso sesso. Diventerà un diritto. D’altronde, se saranno coppie riconosciute, perché mai dovrebbe essere loro vietato di gestire una gravidanza all’esterno, non potendolo fare (nel caso di due mamme o due papà) in modo tradizionale?”. Per questo non ha senso assicurare, quasi a mo’ di compromesso, un rafforzamento delle pene in relazione alla pratica dell’utero in affitto: “Perché si dovrebbe punire (e anche pesantemente) chi lo fa in Italia e non chi si reca all’estero? Meglio non punire nessuno e fare in modo che ciò non diventi una consuetudine, una possibilità per sostituire la famiglia”. Semmai, sarebbe opportuno pensare di più al punto centrale della questione oggi in discussione, e cioè il bambino: “Non significa fare ideologia, ma parlare di cose concrete. Quando si tratta di decidere se affidare un minore a un uomo e una donna, marito e moglie, i giudici avviano una lunga serie di controlli (anche psicologici) al termine dei quali si può pervenire a un verdetto negativo, con la motivazione che la richiesta è determinata solo dal desiderio di genitorialità. E io sono d’accordo, è giusto che sia così. Perché l’interesse deve essere quello del bambino. Ora invece si pone al centro di tutto un fantomatico diritto sul bambino”. Nessuno, spiega Ronco, “si oppone alla possibilità che si possa andare a visitare il partner in carcere o in ospedale, cose peraltro già previste e regolamentate da norme precise. Ci si oppone, però, alla pretesa di costruire una società diversa che finisce con l’annichilire la famiglia”.
Ma perché la famiglia dovrebbe sentirsi toccata o perfino minacciata se vengono estesi diritti ad altri tipi di unione? “Non è vero che non viene toccata”, risponde il nostro interlocutore: “Il diritto deve avere una fondazione veritativa. Ogni riconoscimento di un diritto contempla un impegno della società, quindi è una questione che riguarda eccome la famiglia. Bisognerà anche rivedere i piani educativi, spiegando ad esempio ai bambini che così come vi sono unità famigliari composte da un papà e una mamma ve ne sono pure alcune formate da due papà o due mamme. Si discuta, quindi, del modello che si vuole creare”.
Anche per questo, dice, “non vale stralciare la stepchild adoption e dire che tutto il resto va bene così com’è. Il problema è nella ‘testa’ del disegno di legge” e su questo punto anche chi dissente dall’impostazione del progetto “sembra farlo più che altro per disagio, come si legge sui giornali. Ma qui non può contare l’espressione di un disagio: la legge non si fonda sui disagi. Noi abbiamo la Costituzione, che parla chiaro e che è stata voluta da quasi tutti così com’è scritta. Perfino Palmiro Togliatti fece votare l’articolo 29 sul matrimonio. Qui non è questione di essere moderati o no, di esercitarsi in distinguo circa questo o quell’articolo del disegno di legge – dice Ronco, che plaude a iniziative come il Family Day andato in scena al Circo Massimo lo scorso 30 gennaio – La domanda che bisognerebbe porsi è una soltanto, se accettare o no il cambiamento epocale e radicale che viene previsto da disegni di legge come il Cirinnà”.
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