PADRI. Tutta la verità dalla sala parto in poi
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Sentirsi chiamare: “Papà” e voltarsi di scatto: “Ma chi, io?”
di Salvatore Merlo 27 Novembre 2016 alle 06:00 Foglio
Il Figlio. Tutta la verità dalla sala parto in poi
Un uomo non lontanissimo dai trent’anni è ancora in un’età in cui l’egoismo è persino consapevole, esibito in dignitosa autodifesa nei confronti della famiglia, dei genitori, della giovane moglie (ma non diteglielo), del mondo: un uomo felice di ignorare le scienze naturali e i loro gretti inventari, proiettato nella totalizzante (e rassicurante) dimensione professionale, un’esistenza composta di lavoro, certezze, abitudini, riconoscimenti, libri, cinema, amici, e anche da una sempre minore quantità di paure, timidezze, insicurezze… Tutto stravolto. Cancellato. Puff. Sparito. Le giornate sono un tessuto compatto di cui non si distingue la trama. “Ha fatto la cacca?”, “e com’era?”, “ha mangiato?”, “l’hai pesata?”, “ha pianto?”, “e come ha pianto?”, “e i pannolini?”, “mi spieghi come fa a consumare trentasei pannolini in cinque giorni?”, “ci vuole un mutuo per i pannolini”, “aspetta, forse Renzi ci dà gli ottanta euro del bonus bebè”, “no, non siamo abbastanza poveri”, “cazzo!”.
Quanto segue, caro lettore, è la verità, tutta la verità, sull’essere padre di una bambina di venti giorni (non perdonerò mai Annalena Benini di avermi subdolamente convinto a fissare su carta pensieri di cui mi sarò pentito nel momento esatto in cui metterò il punto finale a questo breve diario). Tutto è cominciato un pomeriggio di fine ottobre, quando, in una stanza dove mi hanno fatto indossare dei parascarpe di tessuto verde, un grembiule e una cuffietta, mi sono sentito improvvisamente ridicolo. Non riesco a mettermi i parascarpe. Ci provo, ma non ci riesco. Niente da fare. Rompo la cuffietta. Con tono pietoso mi rivolgo a un altro quasi-padre, un ragazzo con la faccia porosa, vestito da tronista di Maria De Filippi: “Come si fa?”. Me lo spiega. Lo ringrazio. A questo punto lui mi dice una cosa che mi è restata appiccicata addosso: “Se nun ce aiutiamo tra de noi…”. Ma noi chi? Che cosa abbiamo in comune? Ed ecco l’inesorabile rete del destino, la paternità, scendere su di me come su di un pesce. Ma nella forma di uno sgorbietto sputatosi fuori a suon di urla (la vita sulla terra comincia con un urlo. Ed è un urlo di dolore). Ho scoperto che il parto è uno strazio durante il quale vorresti solo salvare tua moglie e ammazzare tutti gli altri.
Il primo sguardo su mia figlia? Riluttante. “Papà”, dice l’ostetrico, mentre io mi volto per capire con chi stia parlando. “Adesso devi portare la bambina a fare il bagnetto”. Ma chi, io? Dunque mi trovo a spingere un carrellino, e il suo contenuto vivente, verso una sala dove ancora una volta vengo preso seccamente per il mio ormai unico appellativo: “Papà, ma lei deve portare i vestitini! Dove sono i vestitini?”. E io, che non ho più neanche un nome: “Quali vestitini?”. Un babbeo. Abbandono in un lampo la stanza, lasciandovi metà di me stesso. Confusione. Panico. Non li ho mai trovati, quei maledetti vestitini. Oggi mi scopro a parlare di questo evento agli amici con l’aria malinconica di un brav’uomo che, dopo mille traversie, ritorna nel paese natio, e lì, al circolo, racconta tutto quello che ha passato. Mi trovo insopportabile. E quando – non richiesto – ho tirato fuori dal cellulare le foto della bambina, allora mi sono tornate alla mente tutte le cose che pensavo di quei genitori bovinamente soddisfatti dei loro marmocchi. Appena ho capito, appena mi sono rivisto in loro, ho nervosamente riposto il telefonino in tasca. Così, quando un mio collega mi ha detto: “Sai, ti è cambiata la faccia”, allora ho avuto la tentazione di dargli una testata.
Valga come scusante: i miei pensieri hanno ormai l’obiettività scrupolosa dei miraggi nel dormiveglia. Non dormo più di quattro ore per notte, mi sveglio in continuazione con gli occhi violenti di chi vuole e non può dormire. Abbiate pietà. Tornato a casa, lentamente scopro però che lo sgorbietto comincia a sembrarmi carino, e ha pure un carattere. E infatti capisco una cosa, almeno credo, e cioè che il maggior orgoglio di un uomo è quello di trovarsi nelle grazie di una persona terribile. Sicché, quando mia figlia non si dispera perché l’ho presa in braccio mentre sua madre è andata dal medico o a fare la spesa (io sono giudicato inabile all’incarico, “compri solo noccioline e tonno in scatola”), in questi rari casi, dicevo, l’orgoglio mi spinge a scoppiare di felicità. Ubriaco di tenerezza protettiva, mi ritrovo a inanellare per qualche minuto domande candide, sciocche come quelle dell’innamorato: “Mi amerai per sempre, vero?”. Ma non dura. Ecco che una violenta e misteriosa indignazione s’impadronisce di quel visino per un attimo – ma che attimo – disteso. Infilo il mio sguardo nero, che domanda, nel suo sguardo nero, che non risponde. Niente. Non so che fare. Sono in cerca di una funzione, di un’identità. Quella che avevo prima non è più valida. Ma penso pure che tra diciotto o vent’anni rileggerò queste righe con mia figlia, e ne rideremo insieme. Spero.
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