Perché ricordare oggi la lezione liberaldemocratica di Giovanni Amendola
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Analisi oggi quanto mai fu attuale il suo insegnamento al cospetto della distruzione dei ceti medi e all’impoverimento di massa che l’Italia vive da molti anni.
di Guido Pescosolido 27 Novembre 2016 alle 06:00 Foglio
Cade quest’anno il novantesimo anniversario della morte di Giovanni Amendola, avvenuta a Parigi dove Amendola era andato in esilio dopo aver subito, nell’estate del 1925, la terza micidiale aggressione fisica ad opera dei fascisti.
L’Animi (Associazione Nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia) lo ricorda organizzando un convegno a lui dedicato e pubblicando l’ultimo volume del suo epistolario (G. Amendola, “Carteggio 1925-26”, Rubbettino, pp. 780). Il convegno si tiene a Roma il 24 e 25 novembre e si apre alla presenza del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nella sede della Camera dei Deputati, dove Amendola capeggiò la resistenza parlamentare dell’Aventino. Figura, quella di Giovanni Amendola, abbastanza oscurata nei primi decenni del secondo dopoguerra dal dilagante filo-giolittismo storiografico dei vari Salomone, Valeri, Natale ed altri, che relegarono in una luce grigia tutto il liberalismo anti-giolittiano, raccolto intorno al Corriere della Sera di Luigi Albertini, di cui Amendola fu uno dei più autorevoli collaboratori. Fu qualificato quindi, l’Amendola dell’anteguerra, come un chiuso conservatore, quando non un reazionario, e per il dopoguerra finì per passare in sottordine anche la sua lucidissima ed eroica opposizione al nascente fascismo, per non aver capito subito cosa questo veramente fosse. Solo a partire dagli anni Ottanta questi giudizi furono cambiati.
Il liberalismo moderato di Amendola cominciò ad esser visto non come chiuso conservatorismo, ma come appartenenza ideale e politica alla tradizione più autentica del Risorgimento liberale, quella progressista e moralmente intransigente dei Cavour, Spaventa, De Sanctis, contro gli aspetti più deteriori del trasformismo giolittiano.
All’avvicinamento postbellico di Amendola alla democrazia nittiana e alla sua azione giornalistica e politica fu restituito il merito sia di aver espresso lo sforzo in assoluto più rilevante per il rinnovamento della liberaldemocrazia italiana sia di aver frapposto gli ostacoli più insidiosi da parte liberale all’affermazione del regime fascista. Amendola fu in effetti tra coloro che più tempestivamente misurarono la pericolosità politico-istituzionale della crisi economica e sociale nella quale versava il paese e l’inadeguatezza delle vecchie ricette politiche giolittiane ad affrontarla. Fu tra i primi a denunciare il pericolo di sbandamento eversivo filo-fascista dei ceti medi impoveriti e non rappresentati dai sindacati: una deriva favorita, sia pure involontariamente, dalla politica giolittiana di neutralità di fronte agli scontri tra le forze organizzate dei lavoratori della terra e delle fabbriche da un lato e quelle del capitale agrario, industriale e finanziario dall’altro. Analisi oggi quanto mai attuale al cospetto della distruzione dei ceti medi e all’impoverimento di massa che l’Italia vive da molti anni.
Un carteggio per chi ora blatera di “dittatura”
Amendola fu anche decisissimo nell’opporsi al sistema proporzionale sia nelle elezioni politiche che in quelle amministrative, mettendo in guardia, con vibranti interventi pubblici e privati, dai pericoli gravissimi di paralisi che quel sistema avrebbe comportato per la governabilità politica e amministrativa di una società come quella italiana del primo dopoguerra, nella quale i linguaggi, gli strumenti e i contenuti della politica non potevano più essere gli stessi della società agricolo-commerciale ottocentesca. Cosa anche questa da meditare da parte degli odierni neofiti del proporzionalismo. Insomma Amendola non capitò per caso tra i leader politici che il fascismo della prima ora decise di colpire fino all’eliminazione fisica. Era un cervello che andava spento. Un soggetto politico di intelligenza e operatività intollerabili. Firma di punta del Corriere dall’anteguerra, nel 1921 aveva fondato il quotidiano Il Mondo.
L’altro Amendola
Che di Giovanni Amendola i nostri giovani sappiano poco o nulla, lo sospetto da quando – discutendo con alcuni studenti sulle vicissitudini del Pci – mi sono accorto che veniva confuso col figlio Giorgio, “il dirigente comunista maestro di Napolitano”. Asineria a parte, è anche vero che l’inquilino del Colle non ha mai nascosto la sua ammirazione per un “campione intransigente” del liberalismo democratico. Così lo ha definito nella presentazione di un libro di Alfredo Capone (“Giovanni Amendola”, Salerno Editrice, 438 pagg., 24 euro). di Michele Magno
Deputato dal 1919. Sottosegretario alle Finanze nel governo Nitti nel 1920. Ministro delle Colonie nel 1922. La prima aggressione l’aveva subita nel 1923. Dopo il delitto Matteotti era stato la guida indiscussa della secessione parlamentare dell’Aventino. Aveva anche dato vita a un nuovo partito: l’Unione nazionale. Nel 1925 aveva fondato il Risorgimento e era stato promotore insieme a Benedetto Croce del manifesto degli intellettuali antifascisti pubblicato nel suo Mondo. Era troppo pericoloso. A coloro che parlano a cuor leggero di un’Italia oggi assoggettata a un regime dittatoriale e totalitario gioverebbe leggere le pagine del carteggio di Amendola degli anni 1919-26 e ricordare la sua vicenda personale. Forse capirebbero cos’è veramente un regime dittatoriale e come ci vive, e prematuramente ci muore, chi gli si oppone.
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