Politica, fascinazione, colonizzazione. Cosa c’è dietro il rompicapo Marte
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Il pianeta rosso è il più studiato del sistema solare. Dal 1960 almeno 43 missioni hanno tentato di raggiungerlo
La superficie di Marte, il "pianeta rosso", vista dallo spazio
di Umberto Minopoli | 20 Ottobre 2016 ore 18:07 Foglio
Perché Marte?
Anzitutto perché è un rompicapo. Marte è l’oggetto cosmico più studiato, osservato e perlustrato del sistema solare. Con una conclusione però, allo stato, raccapricciante: il pianeta rosso presenta tutte le precondizioni della vita biologica – acqua, carbonio, azoto e ossigeno, contenuto nella sua flebile atmosfera – ma non una traccia, nemmeno elementare, di vita. Per la fisica non è semplice accettarlo. Essa ha una propensione: se determinate condizioni ambientali (anzitutto la presenza di acqua in forma liquida) di abitabilità e di composizione chimica sono presenti su altri pianeti, allora la vita biologica su altri pianeti dovrebbe, necessariamente, svilupparsi. Eppure Marte sembrerebbe smentire questa convinzione: la vita biologica non mostra tracce di evidenza. Un mistero. Risolvibile, forse, solo con l’esplorazione umana diretta del pianeta rosso e, anzitutto, con lo studio del suo sottosuolo, dove la vita biologica potrebbe essersi rintanata.
La seconda motivazione del perché Marte ci riguarda direttamente: il destino ambientale. Marte rappresenta un caso singolare: un’evoluzione inversa. Nella storia del pianeta pare che ci sia un passato originario di somiglianza alle condizioni terrestri. Poi qualcosa ha modificato le condizioni e determinato una regressione fino alla desertificazione, all’ossidazione e alla distruzione dei fattori di abitabilità. Cosa è stato quel qualcosa? E, soprattutto, potrebbe manifestarsi nel nostro futuro? Noi oggi sulla Terra siamo preoccupati del riscaldamento globale attribuito ai gas serra e alla CO2 antropica. E’ l’incubo di Venere. Ma stiamo, forse trascurando l’opposto:l’incubo di Marte. Il pianeta rosso si è spento per i motivi esattamente opposti a quelli temuti dal catastrofismo del global warming. Marte è inaridito, precludendo la vita (almeno sulla sua superfice) per le ragioni contrarie: raffreddamento, perdita di vapore acqueo in atmosfera, evanescenza dello scudo protettivo magnetico, assottigliamento dell’atmosfera ed esposizione all’azione distruttiva della radioattività (cosmica e solare). Se guardiamo dalle foto spaziali, quella sottilissima striscia blu, la nostra atmosfera di vapore acqueo, CO2, azoto e altri gas, ci rendiamo conto che di effetti serra, scudi protettivi (ozono) e campi magnetici ne abbiamo bisogno: il suolo di Marte è morto, biologicamente, della loro mancanza. Anche qui: sarà solo l’esplorazione umana diretta a fornire risposte definitive.
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Una terza motivazione: il terraforming. Nel nostro destino c’è, obbligatoriamente, la riproduzione delle condizioni di abitabilità terrestri in altri ambienti cosmici. Per una serie variegata di ragioni siamo obbligati a ipotizzare la costruzione di colonie extraterrestri e terre di riserva. A provare, in altri ambienti cosmici, il terraforming. Per parecchie centinaia di anni, almeno la metà del Terzo millennio, il terraforming potrà riguardare solo l’interno del sistema solare. Per il problema delle distanze. La nostra tecnologia, basata sui segnali elettromagnetici e sui sistemi di propulsione convenzionali (chimici, elettrici, nucleari e ionici) non rendono ipotizzabile il viaggio interstellare e mete compatibili con la durata media di una vita umana. Anzi, di generazioni umane. Pensiamo: la sonda Voyager 1, lanciata nel 1977, è l’oggetto artificiale più veloce creato dall’uomo. Essa viaggia alla velocità fantastica, per le nostre abitudini terrestri, di 62 mila chilometri al secondo. Dopo 40 anni di viaggio, Voyager è appena giunta soltanto al confine del sistema solare, la nube di Oort. Dopo averlo attraversato, per circa ancora 30 anni, uscirà finalmente dall’eliopausa (il limite massimo di influenza del sole) e inizierà il vero viaggio interstellare. Raggiungerebbe (morirà prima) la stella più vicina, Alfa Centauri, solo dopo altri 70.000 anni. Non c’è verso: per alcuni secoli dobbiamo accontentarci. Solo Marte può provare il terraforming. Eppure il pianeta rosso rappresenta una sfida con elementi singolari di stranezza: Marte oppone, da sempre, una fiera resistenza al disvelamento dei suoi misteri. Oggi sappiamo molto (non tutto) della natura e delle caratteristiche del pianeta rosso. Ma è stato inquietantemente difficile.
Dal 1960, anno di inizio dell’esplorazione marziana, ci sono state 43 missioni verso il pianeta rosso: ben 25 sono fallite. Il record, la quasi totalità dei fallimenti, spetta ai russi. Dopo lo Sputnik del 1957, i russi investirono su Marte come scommessa per vincere la Guerra Fredda spaziale. Con cocenti delusioni. Fino al 1975: le sonde americane Viking riusciranno ad atterrare su Marte e l’America vincerà la sfida. Ma, stranamente, gli americani fermeranno per quasi vent’nni l’esplorazione del pianeta. La riprenderanno nel 1996 con le missioni Mars Global Surveyor e Pathfinder. Per la prima volta un rover, una struttura mobile esplorativa e laboratorio ambulante, ha indagato il suolo marziano. Nel frattempo altri singolari fallimenti: giapponesi, americani, europei (con la missione Mars Express dell’Esa e la sonda inglese Beagle2). Nel 2003, con il rover Opportunity, la Nasa ha iniziato il decennio d’oro dell’esplorazione marziana: Mars Reconnaissance (2003) Phoenix (2007) Curiosity (2011). Non senza, nel frattempo, altri singolari fallimenti di russi e, stavolta, cinesi. Decisamente Marte è una sfida. Il pianeta rosso, lo si sottolinea poco, ha rappresentato un colossale motivo di contrasto politico, economico e tecnologico nella storia spaziale americana e negli indirizzi delle amministrazioni Usa, a partire dalla fine degli anni Sessanta. Modalità tecniche, tempi e costi di una missione umana su Marte hanno diviso, per lungo tempo, politica, scienza e industria in America tra il 1975 e la metà degli anni Novanta. Il periodo coincide con un cambio di agenda della politica spaziale americana dei cui effetti si discute ancora oggi. Rovesciando la filosofia delle missioni Apollo – il driver della politica spaziale Usa deve essere la “missione”, la frontiera, la colonizzazione (nel senso che l’epopea americana attribuisce a questa parola) – la politica della Nasa (nel decennio degli anni Ottanta) portò, secondo alcuni, a un cambiamento di paradigma. Mettendo sullo sfondo lontano Marte e l’obiettivo naturale di “missione” dopo la luna, l’Amministrazione spaziale Usa, anche per problemi di budget, deviò le priorità verso obiettivi tecnologici intermedi – come la costruzione dello Shuttle, il completamento della Stazione Spaziale Internazionale, la continuazione delle osservazioni scientifiche interplanetarie, il completamento del James Webb Telescope (il sostituto del glorioso Hubble) – che nel corso dei decenni hanno tolto l’attenzione, secondo i critici, dalla Mars mission. Creando anche fallimenti, ritardi tecnologici e spreco di risorse. Pensiamo che oggi gli Usa, dopo la messa in pensione degli Shuttle, non dispongono ancora di un sostituto. E anche gli americani devono ricorrere ai vettori russi come commuters verso la stazione internazionale.
Secondo Robert Zubrin – scienziato americano, il più tenace marziologo esistente, autore del “The Case for Mars” e fondatore della Mars Society – e di Michael Griffin – amministratore Nasa interprete della Vision for Space Exploration di George W.Bush, dimessosi nel 2009 per contrasto con gli indirizzi dell’Amministrazione Obama – il focus della polemica sullo stallo spaziale americano è Marte: la nuova Amministrazione democratica, a loro avviso, ha causato rallentamenti e ritardi nella Mars Mission.
La missione europea ExoMars è figlia delle incertezze Usa. Nacque nel 2009 come programma congiunto con la Nasa, che avrebbe dovuto fornire i vettori della missione (Atlas). Naufragò nel 2012 per abbandono degli Usa per motivi di budget. Venne salvata, nel 2013, sostituendo gli americani con russi, ansiosi di riemergere nel Mars dream, dopo i passati fallimenti ripetuti. I russi avrebbero fornito alla missione europea i vettori di trasferimento (Proton ) e una stazione di superfice. Exomars è programmata in due missioni: nella prima l’Europa dovrebbe portare in orbita di Marte il Trace Gas Orbiter (TGO ) per studi dell’atmosfera e la sonda italiana Schiaparelli (il 34 per cento della missione europea) che dovrebbe collaudare tecniche e tecnologie di sbarco. Nella seconda futura missione ExoMars dovrebbe portare mezzi e macchinari su Marte per lo scavo del sottosuolo e il trasporto di campioni di suolo sulla Terra. Ci sono i russi di mezzo: incrociamo le dita!
Intanto nella politica marziana degli Usa è scoppiata la pace. Grazie a un fattore dirompente: l’ingresso in campo dei privati. Eh sì: sarà il capitalismo a portarci su Marte. Obama ha potuto annunciare il cambio di strategia e la ripresa della Mission Mars grazie alla discesa in campo dei privati, che consentiranno budget della Nasa più sopportabili. I privati saranno autorizzati a partecipare, con tecnologie e infrastrutture proprie (moduli abitativi, strutture logistiche) alla predisposizione della missione umana fissata per il 2030. A fianco al brand della Nasa affiorano già i nomi dei tycoons visionari che stanno rendendo di nuovo verosimile il Mars dream: Elon Musk di Tesla con SpaceX, Jeff Bezos di Amazon con Blue Origin, Richard Branson di Virgin Galactic, l’uomo che sta già prenotando turisti spaziali sulla Stazione Internazionale. E’ la rivincita di Zubrin.
L’annuncio di Obama non contiene solo la novità del coinvolgimento dei privati. Ma anche la liquidazione del vecchio progetto di missione su Marte, costoso e lunghissimo, fatto proprio dalle amministrazioni democratiche. E la sua sostituzione con quello che ispirò la polemica di Zubrin e Griffin: il Mars Direct. Che accorciava tempi, costi e passaggi intermedi del “grande passo” sul pianeta rosso. Nel frattempo, non resta che incrociare le dita per il destino della sonda Schiapparelli.
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