Dylan e Fo, cosa significa festeggiare i vivi e celebrare i morti
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E’ un’arte antica, ritualizzata in secoli di civiltà, presente in tutte le culture, e non per caso. Il panegirico dice le lodi di una vita illustre, la laudatio funebris dice il bene di un estinto. Tra i due generi, non solo perché sempre di lode si tratta, esiste un legame sottile, misterioso, nobile, che è poi quello tra la vita e la morte
di Giuliano Ferrara | 16 Ottobre 2016
Festeggiare i vivi e celebrare i morti, Bob Dylan e Dario Fo. E’ un’arte antica, ritualizzata in secoli di civiltà, presente in tutte le culture, e non per caso. Il panegirico dice le lodi di una vita illustre, la laudatio funebris dice il bene di un estinto. Tra i due generi, non solo perché sempre di lode si tratta, esiste un legame sottile, misterioso, nobile, che è poi quello tra la vita e la morte.
L’elogio che lusinga e premia deve essere libero, non forzatamente e ampollosamente encomiastico, e il suo risvolto può comportare una certa dose di ironia e una riservatezza non ipocrita che trapelino da alcuni aspetti dell’impianto retorico. La lode memoriale è più alta e dignitosa quando non eviti gli spigoli, i contraddetti, i problemi, ma è un rito di livellamento e parificazione dei beni e dei mali nel segno del comune destino umano e naturale. A queste cose, che hanno un certo valore, che alludono alla necessità di insistere con il liceo classico e i classici e le lingue morte, tutte cose più vive che mai, tutte cose che accadono anche se non si comunicano nell’istante e nel quotidiano, non si può sostituire il banalismo della polemica.
Dylan non ha scritto romanzi, Fo ha sparato e fatto un bel po’ di funeste scemenze? D’accordo, ma l’uno va considerato per il verso illustre della vita, l’altro per la carezza universale della morte.
Quest’arte è perduta, e anche questa perdita non avviene per caso. Intanto ci rotoliamo nelle nostre opinioni dell’istante, e nel brusio delle opinioni degli altri, come i maiali nel trogolo. L’opinione, il reverente rispetto per la sua onnipotenza, la sua celebrazione idolatrica, è qualcosa che in questi casi ci nutre, che si fa mangiatoia, e che ci sporca, ci tiene tremendamente attaccati al terreno. Uno dei titoli-spia del decadimento della lingua dei giornali è questo: succede la tal cosa, non importa quale, e inevitabilmente “E’ polemica”. La contraddizione e il conflitto polemico dovrebbero essere argomenti, concetti, colorature del punto di vista legato ai fatti, non un genere ripetitivo, abusato, maldestro, un’astrazione nonsensical. Ma c’è altro.
La vita è diseguale, questo è noto. Ci sono la santità e la possessione diabolica, la scienza e l’ignoranza, estreme bellezza e bruttezza, la vertigine incomprensibile della poesia e la piattezza che nega l’espressione. Riconosce la disuguaglianza vitale la capacità di ammirare, di stupirsi con sincerità, di cogliere un fiore dal prato, di riconoscere una dimensione superiore in quella certa qualità che definiremmo “illustre”. E di festeggiare amicizia e il tempo che passa, chiamasi compleanno, o il tempo d’Avvento, dico del Natale, e magari un Nobel che viene comminato a un povero disgraziato di talento una volta all’anno, purché sia vivo e vegeto. Invece noi: “E’ polemica”.
La morte eguaglia, livella, anche questo è noto. Con lei si va incontro a qualcosa che non capiamo o che non siamo in grado di apprendere fino in fondo, che non possiamo fissare diritto negli occhi, come il sole (La Rochefoucauld). E si pretende di commentarla? Via, un essere che perde l’essere esige, non dico la sospensione del giudizio, ma una giudiziosa considerazione, merita memoria, non chiasso polemico. Ci sarà la storia dei documenti, delle interpretazioni, delle ricostruzioni, a dire qualcosa di più. Ma i chiodi del tuo punto di vista, del suo e di quell’altro, conficcati in quel trapasso, in quella crocifissione e in quell’ultimo respiro sono gesti di narcisismo patologico e inverecondia. “E’ polemica”.