Trump e Clinton sono i sintomi dell’inevitabile malattia della democrazia liberale
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La democrazia americana non si è smarrita, ha solo compiuto le sue imperfette premesse. Perché i due candidati alla Casa Bianca "rappresentano il crescente assorbimento della politica democratica negli ‘interessi’. Parla il teologo Schindler
di Mattia Ferraresi | 16 Ottobre 2016 ore 06:00 Foglio
New York. Alexis de Tocqueville aveva intravisto lo psicotico affannarsi del becero Donald Trump, aveva intuito il sordido viluppo di potere di Hillary Clinton, aveva presentito i dibattiti vacui, scorto gli intrighi intessuti nel silenzio di server privati, ma non era riuscito a dare a tutto questo un nome: “Penso che i tipi di oppressione dai quali le nazioni democratiche sono minacciate siano diversi da qualunque cosa sia esistita al mondo. Sto cercando di trovare un’espressione che trasmetta con precisione l’intera idea che mi sono formato, ma non ci riesco”.
Il teologo David Schindler, che vede accadere nella cronaca quello che Tocqueville aveva prefigurato, lo chiama “il capolinea della democrazia liberale”. Per il decano emerito dell’Istituto Giovanni Paolo II di Washington non si tratta del tramonto storico degli istituti democratici, ma di quella fase in cui la democrazia “esaurisce la sua logica intrinseca”, il meccanismo s’inceppa.
Che la democrazia si sia ammalata lo dicono tutti. La questione – capitale – è se la patologia viene da fuori oppure si tratta di una malattia autoimmune, e sono i suoi stessi anticorpi a debilitare l’organismo. Schindler sostiene questa seconda e più impopolare tesi. Per spiegare il nesso fra queste pazze elezioni e il morbo congenito che affligge l’ordine liberale, il teologo americano parte da Platone: “Per il filosofo il tiranno è il figlio del democratico, cioè l’anima democratica si riversa in un’anima tirannica. Se lo stato si occupa soltanto degli interessi individuali, e non del bene comune o bene naturale, non c’è criterio oggettivo con cui risolvere in modo giusto i conflitti della società.
Questo è ciò che Giovanni Paolo II e il cardinale Ratzinger intendevano quando parlavano della conversione della democrazia nel totalitarismo, oppure quando si parlava di dittatura del relativismo”. Laddove l’interesse individuale è il fondamento ultimo della società, le intenzioni virtuose delle istituzioni hanno vita necessariamente limitata.
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Il concetto va travasato nello stampo della democrazia americana. Nel dibattito fra i Padri fondatori, James Madison ha dedicato un’ampia riflessione alla “fazione”, definita come un numero di cittadini “unito e messo in azione da un comune impulso della passione, oppure da un interesse, in contrasto con i diritti di altri cittadini”. Spiega Schindler: “Nella fondazione della democrazia americana ovviamente si può presumere la presenza di una cornice morale ispirata dal protestantesimo nella sua forma puritana. Questa cornice era condivisa da Madison e Jefferson, anche se in una forma piuttosto secolarizzata. Ma lo stato che hanno formato era ordinato attorno a ‘fazioni’ guidate da ‘interessi’ individuali. Nell’amministrazione della giustizia lo stato non aveva l’autorità di riconoscere alcun ordine dell’anima, si occupava soltanto del bilanciamento degli interessi competitivi.
Così, l’unica, definitiva difesa contro la tirannide consisteva nel moltiplicare gli interessi, per fare in modo che nessun interesse dominasse sugli altri”.
Il problema non è che questo equilibrio fra fazioni è saltato, ma proprio che si è consolidato e approfondito, affermandosi non come una fra le possibili impostazioni del problema politico ma come unica impostazione. “In quest’ottica – continua Schindler – Trump e Clinton non sono soltanto ‘cattivi’ candidati che tradiscono i princìpi fondativi della democrazia americana. Al contrario, rappresentano il crescente assorbimento della politica democratica negli ‘interessi’. Trump incarna questa realtà in modo volgare, Clinton in modo più sistemico, ma nessuno dei due è cosciente di ciò che gli antichi chiamavano l’ordine dell’anima”.
La patologia sta dunque nella concezione antropologica su cui l’edificio liberale poggia, talmente radicata da essere difficile da individuare, figurarsi da criticare. E’ come se la preparazione dello spettacolo lugubre di questa disfida elettorale, dove la voglia di ridere o di godersi la rissa con i pop corn sono svanite ormai da mesi, fosse iniziata alcuni secoli fa. Trump e Hillary sono soltanto gli attori meno amati (e più votati) che erano sulla piazza in questo frangente storico. Possibile districarsi fra tali alternative senza rinchiudersi in una monade impermeabile alla modernità? Nel 2004 il filosofo cattolico Alasdair MacIntyre ha vergato un argomento sull’obbligo morale all’astensione quando le alternative politiche sono intollerabili. Si trattava non solo del rifiuto di due candidati incompatibili con le proprie convinzioni, ma di un gesto di resistenza “all’imposizione di questa falsa scelta da parte di chi si è arrogato il potere di designare le alternative”. In altre parole: non ci si astiene perché i giocatori in campo non piacciono, ma perché non piacciono il campo, le regole del gioco e quelli che le fissano. Schindler parla però di “un obbligo anche più fondamentale del voto”. Quale? “Condividere la responsabilità di tutta la società umana: di difendere soprattutto ciò che è dato da Dio: le comunità naturali della famiglia e i figli nella loro innocenza, la realtà nella sua verità e bontà ‘senza difese’. La decisione di votare o non votare dev’essere determinata sulla base di ciò che realizza al meglio la responsabilità sociale di ciascuno”.
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