Meglio la gelosia segreta o la pretesa di uguaglianza assoluta?
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Una sorella nuova nella carrozzina, il mal di gola immaginario e il cronometro della buonanotte
di Annalena Benini | 14 Ottobre 2016 ore 15:51 Foglio
Ero in quarta elementare, salivo dopo la scuola sul motorino arancione di mia madre e la abbracciavo fiera, a volte il pomeriggio spingevo la carrozzina dove dormiva mia sorella appena nata e tutta rosa, la guardavo e non potevo credere che fosse davvero viva, ancora viva, e mi chinavo per sentire il respiro, ero preoccupata che morisse e avevo paura che nessuno se ne accorgesse tranne me. Ecco è morta, devo dare l’allarme, pensavo ogni volta che dormiva, ogni volta che non piangeva fortissimo e non diventava quasi viola.
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Nel mio ricordo ero preoccupata, anzi molto triste per quella bambina così carina, così piccola, che mi stringeva il dito e mi fissava con occhi grandissimi e sorpresi prima di sporgere il labbro inferiore in avanti e ricominciare a piangere, ma pensavo che forse era meglio non dare nessun allarme, evitare di intromettermi, lasciare che se ne accorgessero gli adulti, sennò magari avrebbero incolpato me, e avvicinavo di nuovo la mia faccia al suo naso per sentire se mia sorella, nata da poche settimane, respirava e mi sembrava sempre di no, appoggiavo la mano aperta sopra la tutina rosa per sentire se le batteva ancora il cuore e mi sembrava sempre di no, che non battesse nessun cuore e non uscisse nessun respiro. Era sempre calda e muoveva le dita anche mentre dormiva, ma non significava niente. Immaginavo il dolore dei miei genitori, delle mie nonne, pensavo che sarebbe toccato a me consolare tutti, dare carezze, e mi chiedevo se avrei dovuto rivelare, a un certo punto, che io lo avevo capito subito, anzi lo avevo previsto, era bastato mettere la testa dentro la carrozzina per rendersi conto che stava per succedere qualcosa, oppure se era meglio tacere e piangere e continuare ad avere otto anni.
Probabilmente volevo eliminare mia sorella appena nata dalla famiglia, dalle braccia di mia madre, dalle Polaroid che le scattava mio padre, e infatti quell’estate, l’estate dei miei otto anni, ebbi continuamente mal di gola, e andai con mio padre per tutto il mese di agosto a fare punture di penicillina per farmelo passare. Stavo bene, giocavo, saltavo, leggevo, poi qualcuno mi chiedeva: adesso hai mal di gola? e io allora mi fermavo, deglutivo e rispondevo sempre: sì. “Sei sicura che hai mal di gola e che non sei gelosa di tua sorella appena nata?”, diceva mia madre, e faceva un’espressione sospettosa e ironica insieme. Con quella faccia sospettosa e ironica con cui aveva mostrato di scoprire il mio groviglio infantile aveva tolto via la dolcezza, mi trattava come un adulto imbroglione e quindi io mi offendevo (ma perché le figlie hanno tante aspettative verso le madri? Chi le autorizza?), e allora io non potevo che mettermi a piangere: certo che sono sicura, non mi credi? io non sono gelosa, dicevo con la faccia già piena di lacrime. Sono certa di non avere avuto mai nessun mal di gola quell’estate. Sono quasi sicura di avere desiderato, però negandola, la morte di mia sorella.
Così adesso quando i miei figli litigano per i minuti di buonanotte la sera, cioè tengono ognuno in mano un orologio con i secondi e misurano il tempo che passo sul letto di uno e dell’altro a salutare, e la bambina più grande fa il conto alla rovescia e dice ogni volta: non è giusto, a lui lo hai baciato di più, e lui urla: non è vero è stata più con te, sei una bugiarda, dico sempre, con un po’ di apprensione: ma voi comunque vi volete bene, vero, vi vorrete bene sempre, anche quando sarete grandi? La risposta è sempre precisa e in coro: no! Anche: schifo. Spesso: vomito. Con quel “no” io mi tranquillizzo, perché penso che basti un no preciso e semplice a non desiderare la sparizione di un fratello dalla stanza e dalla vita.
Infatti, adesso che la sorella più grande va in una scuola nuova e deve svegliarsi mezz’ora prima la mattina, e dice che è un’ingiustizia e che questa vita la ucciderà, lui scende dal letto appena si accorge che lei si è alzata. Ma perché non dormi ancora un po’, tu che puoi, gli chiediamo quando arriva in cucina a piedi nudi e occhi chiusi, e si siede davanti alla tazza della colazione e appoggia la testa sul tavolo. Perché non è giusto che lei faccia più cose di me, non voglio che abbia più tempo. Ma è tempo di scuola, non è una vera vita!, grida lei e gli dice che è davvero scemo, anche perché continua a tenere la testa sopra il tavolo, anzi spesso si riaddormenta così e russa. Poi alza la testa di scatto, apre gli occhi e fa domande, controlla se in quei minuti in cui non ha vigilato sua sorella abbia ricevuto dei regali, delle merendine in più, un euro, un invito, una penna nuova che spettava anche a lui.
Allora gli ho raccontato che sua sorella mi dà quattro baci tutte le mattine, proprio davanti al portone della scuola (non è vero perché lei si vergogna e scappa, anche se è schiacciata dallo zaino riesce a correre e a sfuggire agli abbracci e sparisce in un secondo). Lui mi ha guardato sospettoso, poi ha detto: va bene allora posso baciarti anche io. Lo accompagno dentro la scuola, fino alle scale, mi fermo lì in fondo e mi lascio dare quattro baci. Poi lo guardo salire velocissimo e fare le smorfie e pulirsi la bocca con la manica della maglietta, contrariato ma convinto di essersi guadagnato, anche oggi, l’uguaglianza assoluta.
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