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Poco piede ma molta gamba, fame e cattiveria. Una traversa e un gol contro la Svezia. Che volere di più?
di Lanfranco Pace | 17 Giugno 2016 ore 20:46
Per Conte, questo conta. E per noi pure. Abbiamo passato il turno, raggiunto l’obiettivo minimo, non impossibile del resto: su ventiquattro squadre ben sedici vanno avanti e solo otto tornano a casa, Rai e Sky sono sollevate, non ci sarà calo dell’attenzione giustificando i loro dispositivi spropositati. Abbiamo avuto ragione anche della scaramanzia, venerdì 17 è uno di quei giorni in cui è saggio non uscire di casa, non intraprendere progetti. Abbiamo cancellato l’infausto precedente del Mondiale 2014 dove battemmo a petto in fuori l’Inghilterra nella partita inaugurale per poi incappare nella più mesta eliminazione dal 1966, da quando il sergente Pak Doo-ik da Pyongyang ci buttò fuori dalla Coppa Jules Rimet, così si chiamava il mondiale fino a che il Brasile non se l’è aggiudicata definitivamente. Con ogni probabilità saremo primi: per arrivare secondi dovremmo prendere almeno tre gol dalla Repubblica d’Irlanda e questo non sarà possibile nemmeno con in campo i foglianti avvinazzati. C’è chi ha detto che sarebbe stato meglio arrivare secondi in modo da incontrare agli ottavi Portogallo o Ungheria e non Spagna o Croazia: siamo sempre i soliti, crediamo che si possa vincere senza che gli altri se ne accorgano e poi dice che uno si butta dalla parte della Merkel.
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Marc Wilmots, allenatore del Belgio, undici pischelli ricchi e annoiati, ha detto che l’Italia gioca catenaccio e contropiede e non gli piace, lo possiamo anche capire visto come gli abbiamo scaldato le natiche. Pensieri simili avrà Erik Hamrén che ha un look invidiabile da ceo di multinazionale e un gilet pazzesco, ma di fatto allena una leggenda, Ibrahimovic, e una dozzina di armadi, ruvidi quanto si vuole ma pur sempre uomini di bosco. Conoscere e capire gli avversari, leggere una partita non è alla portata di tutti, qui c’è il vero divario tra allenatori perdenti lamentosi e un po’ lividi e allenatori vincenti, anche quelli che come Conte sembrano animati da una forza oscura. L’Italia non ha brillato, d’altronde giocare un Europeo di primo pomeriggio è come andare al cinema di mattina. Ma di certo non è catenaccio e contropiede, non è tutti dietro la linea della palla e il famoso pullman di Mourinho parcheggiato davanti la porta, sperando che prima o poi l’avversario svirgoli, cicchi e un amico rapace s’involi verso il nemico.
Non è l’Inter di Helenio Herrera, insomma, che pure con quei pochi e solidi princìpi, difesa più chiusa di carne in scatola cento per cento italiana, un paio di portatori d’acqua, due lanciatori e due velocipedi, dettò legge in Europa.
L’unico punto in comune con questa cultura è la forza straordinaria della difesa, che però accorcia il campo giocando la maggior parte del tempo il più possibile alta, vicina alla linea del centrocampo: il calcio totale olando-sacchiano è passato anche di lì. In mezzo e davanti abbiamo poco piede ma molta gamba fame e cattiveria, allora ci si dispone stretti e vicini, avessimo geni e genietti per giocare palla a terra potrebbe sembrare il tre sette del Barcellona ma così non è, allora da plebei del calcio alterniamo molti lanci lunghi e ogni tanto qualche scambio ravvicinato.
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