Lettere al Direttore Il Foglio 19.3.2016
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Ma davvero Renzi ha tagliato 25 mld di spesa pubblica? Nein. BCC rafforzamento credito bomba ideologica
1-Al direttore - Quindi non sono riusciti a consegnare la busta arancione a Salah?
Giuseppe De Filippi
2-Al direttore - “I tagli alla spesa pubblica fatti fino a ora ammontano a 25 miliardi di euro. Abbiamo tagliato talmente tanto che è difficile andare oltre”, ha dichiarato nei giorni scorsi Renzi. Parlando prima alla Camera e poi al Senato, ha spiegato che l’unico modo per diminuire la pressione fiscale “dopo 25 miliardi di tagli” è di finanziare la riduzione delle tasse in disavanzo, ossia attraverso margini di finanza pubblica derivanti dall’attivazione da parte dell’Europa delle clausole di flessibilità: “Senza la flessibilità”, secondo il premier, “non ci riuscirebbe neanche Mago Merlino”.
Effettivamente, 25 miliardi di tagli (circa un punto e mezzo di pil) non si erano mai visti nell’ultimo decennio: dal 2004 al 2014, le uscite pubbliche non hanno fatto altro che aumentare, passando da 678 miliardi di euro (46,8 per cento del pil) a 826 miliardi di euro (51,2 per cento del pil). Per l’anno in corso, tuttavia, l’Eurostat prevede una prosecuzione della tendenza in atto, con la spesa che dovrebbe attestarsi a 835 miliardi di euro.
Ma, allora, come deve essere interpretata la cifra dichiarata dal governo di “25 miliardi di tagli”? La risposta la si trova sul sito del ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) (http://www.mef.gov.it/inevidenza/article_0190.html) in una breve nota dal titolo “Quanto pesa la Spending Review”? Il comunicato precisa che i risparmi per 25 miliardi di euro realizzati nel 2016 – grazie a iniziative intraprese tra il 2014 e il 2015 e alla legge di Stabilità 2016 – “hanno consentito di finanziare alcune delle misure a sostegno della crescita e dell’occupazione”. I dettagli di queste misure non sono illustrati nella Nota, tuttavia una cosa è chiara: i tagli effettivi non possono essere 25 miliardi di euro dal momento che sono stati utilizzati per coprire incrementi di “altra” spesa pubblica.
Per sapere a quanto ammontano i tagli “netti” per il 2016, anche in questo caso, bisogna andare sul sito del Mef, (http://www.rgs.mef.gov.it/VERSIONE-I/Pubblicazioni/Note-brevi/La-manovra-di-FP/2016-2018/). Nella tabella a pagina 4 del documento redatto dalla Ragioneria generale dello stato (“La Manovra di Finanza Pubblica per il 2016-2018”), si evince che, per l’anno 2016, la cifra totale della “variazione netta delle spese” è pari a 360 milioni di euro, di cui 41 di spesa corrente e 319 di spesa in conto capitale.
Da dove deriva, quindi, la differenza tra le cifre pubblicate e quelle dichiarate? Semplice, dalla differenza tra la parte di spesa pubblica realmente “tagliata” e quella semplicemente “riqualificata”. In effetti, l’obiettivo della spending review non è solo quello di contenere la spesa (revisione quantitativa) ma anche quello di riallocarla verso impieghi più efficienti e più produttivi (revisione qualitativa). Quello che emerge dai dati è che il governo, più che tagliare la spesa pubblica, l’ha spostata da un capitolo a un altro: una linea destinata a proseguire con l’implementazione della riforma della pubblica amministrazione. Del resto, che questo sarebbe stato l’approccio seguìto lo aveva precisato lo stesso ministro della Funzione pubblica al momento della presentazione del ddl delega: “Non so quanti risparmi porterà la riforma della Pubblica Amministrazione e sono contenta di non saperlo perché l’impostazione non è di spending review: non siamo partiti dai risparmi”.
Insomma, tagliare non sembra essere una priorità. “L’austerità non fa crescere” ha ribadito Renzi in diverse occasioni. Una affermazione che, però, non sembra essere supportata dai dati. I paesi che nell’ultimo quinquennio hanno tagliato la spesa pubblica come l’Inghilterra (dal 48,8 al 43 per cento), la Spagna (dal 46 al 43,3 per cento) o l’Irlanda (dal 47,2 al 35,9 per cento) crescono, rispettivamente, del 2,3 per cento, del 3,2 per cento e del 6,9 per cento. L’Italia, che nello stesso periodo ha incrementato la spesa pubblica dal 49,9 al 50,7 per cento, è ferma allo 0,8 per cento.
Veronica De Romanis
Di solito, poi, chi di anti austerità ferisce di anti austerità perisce. Grazie.
3-Al direttore - Nelle affermazioni di alcuni esponenti della minoranza Pd colpisce come una questione essenzialmente pratica – quella del rafforzamento del credito cooperativo – venga trasformata in una sorta di bomba ad alto potenziale ideologico da scagliare contro il governo. L’aspetto essenziale del decreto credito è la creazione di una holding spa, che farebbe da capogruppo, i cui azionisti, nella misura non inferiore al 51 per cento, sarebbero le attuali Bcc. Con questa riforma il lucro entra dunque nella cooperazione dalla porta principale, ossia dalla holding capogruppo. Tuttavia i puristi dell’ideologia cooperativa non si preoccupano affatto di questo punto, perché sanno che, se saltasse, molte Bcc dovrebbero essere messe in liquidazione e le famose riserve indivisibili – lungi dal servire alle future generazioni – verrebbero bruciate nelle aste giudiziarie. Si preoccupano invece, quei puristi, della way out introdotta all’ultimo momento dal governo, persino nella versione attenuata dello scorporo dell’attività bancaria dalla cooperativa: sembra che non piaccia che il lucro entri a valle della cooperativa, anziché a monte. Difficile apprezzare la differenza. Si argomenta anche che, in questi tempi di vacche magre, gli utili della banca non sarebbero sufficienti ad alimentare le altre funzioni di pubblica utilità cui dovrebbero dedicarsi le coop ex Bcc. Si può facilmente rispondere che le singole ex Bcc valuteranno di quante risorse dispongono per alimentare con la necessaria gradualità altre funzioni. L’opzione dello scorporo è stata fatta propria dall’Alleanza delle cooperative che, pragmaticamente, sa bene che l’ipotesi iniziale di obbligare tutte le Bcc ad accorparsi sotto un’unica capogruppo sarebbe quanto mai indigesta. Oltretutto, cosa avrebbero detto gli illustri esponenti della minoranza Pd se il governo si fosse attenuto al piano iniziale, senza way out? E’ facile immaginare le veementi proteste per la violazione dell’autonomia dei territori, per la loro sottomissione a una “holding sola al comando”, per il neocentralismo di Renzi. Non bene, ma benissimo ha fatto dunque il governo a lasciare aperta una possibilità di uscita. La questione dell’affrancamento delle riserve indivisibili per le Bcc che superino la soglia dei 200 milioni di patrimonio è più delicata, e in molti abbiamo depositato emendamenti per sopprimere questa possibilità. Ma, anche qui, non si può non notare che sulla pelle della cooperazione si è combattuta una guerra puramente ideologica. Nel mondo, e l’Italia non fa eccezione, le riserve indivisibili sono un’opzione finanziaria per le cooperative. Non sono un principio irrinunciabile e non fanno parte, se non appunto come opzione, della carta dei princìpi dell’associazione mondiale delle cooperative. In molti paesi la legge rinvia la scelta ai singoli statuti, e dunque alle decisioni sovrane e democratiche dell’assemblea dei soci, che hanno sempre la facoltà di cambiare idea.
Si può legittimamente pensarla diversamente, ma appaiono un bel po’ sopra le righe espressioni come “scippo generazionale”, “furbetti delle riserve” o “legge invotabile anche con dieci fiducie”.
Infine, c’è il rischio che l’imposta del 20 per cento non sia congrua e che dunque l’operazione si configuri come un aiuto di stato? Si chieda al governo di chiarire il punto con la Commissione europea, ma per favore si discuta del tema con laicità e concretezza. E si smetta di mettere di mezzo l’ideologia e le sorti del governo.
Giampaolo Galli, deputato del Pd
4-Al direttore - Giuristi, costituzionalisti, artisti, letterati, attori, cantanti, registi, scienziati, giornalisti e perfino religiosi: è fitto e autorevole l’elenco degli intellettuali che hanno sottoscritto l’ultimo appello contro l’Italicum e per il no al referendum sulla riforma del Senato. Il testo trasuda un palpitante “spirito partigiano”, come del resto si conviene quando è a rischio – testuale – “la Repubblica democratica nata dalla Resistenza”. Questa volta forse un po’ in chiave di commedia, secondo la nota legge di Marx sulla ripetizione degli eventi storici. Ma si tratta di un dettaglio trascurabile di fronte alla discesa in campo di così intransigenti custodi della nostra Carta, per lo più assai affermati, ossequiati e inseriti in una placida agiatezza (amareggiati, in qualche caso, soltanto dal contegno del fisco). Affinché la protesta contro la tirannide renziana sia davvero forte ed estesa, ovviamente i promotori dell’appello si aspettano molte altre firme, in primis quella di Maurizio Landini. Senza il pugnace sindacalista delle tute blu, infatti, che protesta sarebbe? Possono stare tranquilli: l’avranno di sicuro (se non l’hanno già avuta). D’altronde, osservava Ennio Flaiano citando il sostegno della Fiom a un ormai mitico contro festival del cinema di Venezia (1972), i “metalmeccanici devono avere un buon carattere: non solo fanno un duro lavoro e non ben compensato, ma corrono in soccorso ai benestanti; e questo è bello, perché i ricchi vanno aiutati, abbiamo già troppi poveri” (“La solitudine del satiro”).
Michele Magno