Lettere al Direttore Il Foglio 7.7.2016
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Siamo ancora in tempo per un’alleanza repubblicana? Come se non bastassero quelli economici, sono politici i rischi che la questione bancaria sta facendo correre a Renzi. ““la democrazia è stata la strada per l’individuazione di una legittimazione del potere che comunque separasse l’élite dal volgo ?”
1- direttore - Come se non bastassero quelli economici, sono politici i rischi che la questione bancaria sta facendo correre a Renzi. Se vuole avere l’esenzione dal bail-in dovrebbe sostenere che la crisi minaccia la stabilità finanziaria del paese: siccome la crisi non può essere il Brexit, che è a ogni evidenza una crisi sistemica, questo equivarrebbe a dire che è l’intero sistema bancario italiano a rischiare di essere trascinato a fondo dalla crisi di Montepaschi. Far leva sulle conseguenze che un bail in enormemente maggiore di quello delle quattro banchette avrebbe sul referendum di ottobre, e sull’instabilità politica che deriverebbe da un No, lo indebolisce in Italia e non lo rafforza in Europa. Se Renzi procede con un salvataggio senza bail-in, come era apparso sul Financial Times, corre il rischio di essere quello che approfitta della debolezza dell’Europa post Brexit per sfidare la Commissione, mettendola di fronte a un dilemma: se accetta l’infrazione senza sanzionarla, compromette irreparabilmente l’Unione bancaria, unico passo avanti significativo dopo Maastricht verso la “ever closer union”. Se la sanziona, apre una nuova ferita nel cuore dell’Europa, già percorsa da tensioni centrifughe. In ogni caso l’Europa ne esce indebolita. Non il massimo per chi è stato appena ammesso come terzo agli incontri ristretti Germania Francia.
Franco Debenedetti
Nel 2011-2012-2013 i governi si rifiutarono di scoperchiare la pentola delle banche per evitare di destabilizzare il sistema. Fu un grave errore. Oggi alle banche servono due cose: capitali coraggiosi per sopravvivere e governanti con il coraggio di non nascondere i problemi sotto il tappeto delle ipocrisie. Ogni giorno che passa è un problema in più. Per le banche. Per il governo. E anche per l’Europa. Speriamo lo capisca anche la Germania.
2-Al direttore - Il commento di Serena Sileoni mi ha buttato in uno stato di vera prostrazione per la sua concezione della democrazia, perché conferma i miei timori che stiamo lentamente intraprendendo una nuova road to serfdom, ma non quella ipotizzata da Hayek. Lei scrive che “la democrazia è stata la strada per l’individuazione di una legittimazione del potere che comunque separasse l’élite dal volgo” e parla di “schizofrenia del continuo appello alla sovranità popolare e alle forme di democrazia diretta e partecipata”. Laurence Whitehead ha studiato oltre 100 esperienze nazionali di democratizzazione, ma una concezione del “volgo” come quella proposta dalla Sileoni deve essergli sfuggita, mentre evidenzia una serie infinita di casi in cui il popolo è stato ingannato parlando di sovranità, ma offrendo illusioni e dittature. La conclusione della Sileoni è “che il busillis sia nelle soluzioni istituzionali che razionalizzino il principio maggioritario: voto sì ma non su tutto, e persino voto sì ma non per tutti”. Chi dovrebbe scegliere su quali materie chiedere il voto e chi lo deve esercitare? Ovviamente le élite. Nasce un circolo vizioso che parte dal presupposto indimostrato, contrario al fondamento delle idee liberali, che debbano essere le élite a esercitare le scelte e, quindi, il potere. Perché prendersi il fastidio di perdere tempo con la democrazia?
Paolo Savona
3-Al direttore - La riflessione di Umberto Minopoli mantiene nel dibattito politico un rigore di analisi e una profondità di giudizio di cui avvertiamo, tutti, la mancanza. Minopoli ha perfettamente ragione quando sottolinea che la sinistra ha sempre avuto difficoltà a comprendere le novità del capitalismo contemporaneo, originata da un pessimismo catastrofista per cui la crisi è sempre solo involutiva e premonizione di un collasso. Invece la crisi, secondo il suo stesso etimo, è sempre e solo trasformazione, e richiederebbe la capacità di comprendere i processi di innovazione come presupposto di una politica di governo. Ricordo ancora oggi quello che ci disse Giovanni Amendola: “Prima di parlare dovete studiare e conoscere i dati fondamentali della realtà, dell’economia, della società”. Con lo stesso spirito, il liberale Ralf Dahrendorf predicava la necessità di una conoscenza marxiana dei mutamenti della società.
Concordo con Minopoli quando ricorda che la globalizzazione ha comportato finora un miglioramento delle condizioni di vita di milioni di persone, soprattutto nelle aree più povere del pianeta. Il pil mondiale cresce ogni anno in misura considerevole, grazie al ruolo degli Stati Uniti e al dinamismo di nuove potenze. E’ vero, inoltre, che cresce una nuova economia dell’innovazione, non limitata ai paesi più avanzati. Temo invece che Minopoli sottovaluti alcuni fattori che mi limito a elencare: la crescita delle diseguaglianze, e non solo negli Stati Uniti, che minano la coesione sociale e la stessa crescita economica; l’esistenza di una miriade di conflitti e soprattutto di minacce incombenti di conflitti più estesi che rischiano di esplodere; le migrazioni di massa e soprattutto i fuochi del terrorismo che alimentano ovunque un senso di angoscia esistenziale e d’insicurezza sociale. Tutti questi fattori, sommati alla crisi economica scoppiata nel 2008, hanno messo a dura prova sia le teorie liberali sia quelle socialdemocratiche, non parliamo poi di quelle della sinistra antagonista che ormai appaiono vuote e desuete. Le vicende di questi anni hanno dimostrato, in particolare, la necessità dell’intervento dello stato per tamponare gli effetti di un mercato a briglie sciolte. Questo rinnovato ruolo dello stato, tuttavia, non ha avvantaggiato la sinistra riformista, che anzi è quasi ovunque sulla difensiva. Io credo che questo sia accaduto perché la globalizzazione ha frantumato il modello di consenso socialdemocratico, fondato sul più ampio spettro di diritti e di benessere economico ottenuti nella storia. Se le élite e le classi politiche perdono il contatto con la realtà e giudicano senza umiltà questi cambiamenti, consegnano ai populisti le classi sociali più colpite dalla crisi. Ciò detto, la crisi è sempre aperta a diverse possibilità: nel migliore dei casi un progresso ordinato, nel peggiore un esito catastrofico. Oggi siamo pericolosamente in bilico, come ci indica la situazione francese e il successo di Trump negli Usa. Perciò condivido la conclusione di Minopoli: solo un’alleanza repubblicana, anche in Italia, può mantenere aperta una prospettiva europea e scongiurare i pericoli più gravi.
Sandro Bondi