Lettere al Direttore Il Foglio 6.7.2016

Duccio ricorda Zeichen, che limava la parola con l’intelligenza. A occhio anche Raggi, come Farage, con la vittoria a Roma ha raggiunto il suo obiettivo.

1-Al direttore - A occhio anche Raggi, come Farage, con la vittoria a Roma ha raggiunto il suo obiettivo.

Giuseppe De Filippi

A Londra trattasi di dimissioni del leader di un partito quasi inesistente. A Roma trattasi di un fenomeno più gustoso: la progressiva dismissione pubblica di un patrimonio elettorale. Raggi deve ancora cominciare ma presto si accorgerà che l’elettore a cinque stelle lo si conquista facilmente quando si fanno allegre scampagnate elettorali, mentre lo si trattiene con più difficoltà quando dalla chiacchiera di lotta si passa alla pratica di governo. Apriremo il Parlamento come una scatoletta di tonno, disse Grillo tre anni fa. Non è successo. Ora resta solo da vedere se sarà Raggi ad aprire il Campidoglio o se sarà il Campidoglio ad aprire come una scatoletta di tonno il Movimento 5 stelle.

2-Al direttore - E’ morto Valentino. Lo conoscevo dal 1958. Lui ventenne, io appena tredicenne, lo vedevo sbucare dal folto delle pendici di Villa Strohl-fern, lui che si arrampicava partendo dal Borghetto Flaminio, dove fino a pochi anni prima c’erano stati gli orti di guerra, ed ora qualche baracca di lamiera ospitava una rinfusa di senza tetto tra cui il giovane vigoroso virgulto che sarebbe diventato di lì a pochi anni il più sornione, sarcastico, ironico, cinico e melanconico poeta nella Roma degli anni Sessanta e Settanta, una delle voci più sintomatiche e libere di tutta una generazione nell’Italia del post-miracolo economico.

Allora Valentino portava dinoccolato i suoi jeans sciorinando incisive battute ad epigramma che sorprendevano noi adolescenti: era sapiente e allusivo, dolente indagatore di caratteri, corteggiatore dall’aggettivo inflessibile delle ragazze più in fiore, lettore arguto di poesia mista di argomenti teosofici non alla moda (allora), sciorinante sapienze ‘heideggeriane’ in tempo di neorealismo e di sperimentale avanguardia, attento ai modi di un’ arte visiva divisa tra le pittografie lirico astratte di Gastone Novelli e la fisiognomica lacerata dell’immagine pubblicitaria nei ‘decollages’ di Mimmo Rotella.

Artista visivo, e poeta. Così Valentino amava esprimersi in ogni aspetto della vita. Così lo conobbi nel 1958, e tale lo ho sempre rivisto senza un filo di mutamento caratteriale fino a qualche settimana fa quando per l’ultima volta gli sono stato vicino nella casa di riabilitazione sulla Via Ardeatina dov’era sistemato dopo il colpo cerebrale che gli aveva leso, pochi mesi prima, l’articolazione della braccio e della gamba destra.

Mi sorrideva paziente per il piacere di sentirmi vicino. L’intesa era quella di sempre, approfondita da decenni di comuni intese sulla precarietà di una debole cultura progressista al cospetto del gigantismo tecnico e scientifico con cui si misurano i tempi moderni e i cicli di civiltà.

Valentino limava la sua parola col temperino della intelligenza, ne fabbricava formule artigianali a commentario delle banalità, dei costumi, dei luoghi comuni vigenti. O pure ne faceva scandaglio fantasioso e argomentato di larghe vedute antropologiche, dove la storia umana si congiunge con l’evento naturale impredicabile, terremoti che schiacciano mondi e interi cicli di civiltà di fronte ai quali sola si presta l’impassibile sorriso filosofico del pensiero poetante, dell’ epigramma, di una eccentrica posizione esistenziale, quale cifra della insopprimibile libertà della parola umana.

Parlare della poesia di Valentino Zeichen sarà affare culturale di molti commentatori. E se ne ascolteranno di tutti i tipi.

A me basta ricordare la sua baracca di lamiera, dalla quale non avrebbe mai voluto separarsi (e Dio sa se la infermità che lo aveva colpito glielo avrebbe ancora potuto consentire), e i suoi ricorrenti squilli di telefono con i quali si candidava a condividere assieme un piatto di spaghetti a casa mia, per tessere la trama dei ricordi e dei pensieri attuali come frutto di un amalgama e di una esperienza che ci accomunava: il mondo poetico artistico di Villa Strohl-fern, la filiera di cari amici ‘al compleanno del tempo’ (Mario Seccia, Duccio Staderini, Azio Cascavilla, Franco Purini, Antonio Pedone e tutti gli altri), da piazza del Popolo alle scorribande serali in una Roma fatta spettacolo nel binomio vita-arte quale sembra oggi amata ombra del passato.

Avrei voluto esserti vicino per tanti altri lunghi giorni, caro amico fraterno. Te ne sei andato via in anticipo sulle mie speranze. Forse hai preferito che ‘la cosa’ finisse così. L’abito dell’invalido non ti si addiceva, avrai finalmente pensato: aveva un sapore ‘sgradevole’, per usare uno degli ultimi aggettivi che ti ho sentito pronunciare prima della tua definitiva partenza.

Ora che non ci sei più, restano tante tue raccomandazioni e consigli su idee da perseguire (come ne parlavamo) e progetti da imbastire (come immaginavamo). Se ci riesco, caro Valentino, proverò a portarli a termine. Puoi contare su di me.

Duccio Trombadori

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