Perché oggi più che mai "non possiamo non dirci cristiani"
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Tra Giubileo e minacce del terrorismo islamico, il testo di Benedetto Croce del 1942 è un’utile lettura, oggi, per alcuni improvvisati "laici" e per lo strabico cotè che, in ossequio al multiculturalismo, si affloscia a concedere valore di provocatorietà alla esibizione dei simboli cristiani
di Umberto Minopoli | 08 Dicembre 2015 ore 13:14
Ce ne siamo dimenticati. Parlo di quel piccolo libretto che Croce scrisse di botto, a suo dire, in un’inquieta notte del 1942: “Perché non possiamo non dirci cristiani”. Sarebbe un ottimo testo scolastico breve di storia della filosofia. E un’utile lettura, oggi, per alcuni improvvisati "laici". E per lo strabico cotè che, in ossequio al multiculturalismo, si affloscia a concedere valore di provocatorietà alla esibizione dei simboli cristiani. Simboli religiosi, al pari di altri, che andrebbero espulsi dalla sfera pubblica e rintanati in quella privata. Ma sono veramente, solo, residuali simboli religiosi quelli cristiani nella nostra sfera pubblica? Croce stimola, con il suo scritto una rappresentazione diversa, laica e civile, dei significato, per noi, del Cristianesimo. Che non può non riguardare anche la sua simbologia.
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Il libretto del grande padre liberale del nostro 900 è una risposta alle strampalate semplificazioni, al clima di sincretismo relativista, di banalizzazione, di svalutazione comparata di “tutte” le religioni e delle loro simbologie che episodi come quelli di Padova hanno sollevato. Croce era “inquieto” quella notte del 42, certamente, per gli esiti della guerra, per la tragedia italiana e per il ruolo della chiesa cattolica di cui gli interessava alimentare il distacco dalla dittatura. E la speranza di un arruolamento motivato dei cattolici nella ricostruzione liberale dell'Italia del futuro. Ma lo scritto va oltre. Traccia un affresco della storia culturale europea. E finisce per caricare la Chiesa, implicitamente, di una responsabilità più vasta: di incarnare, pur con ritardi e contraddizioni, non tanto una comunità credente ma il corpus istituzionale di una civiltà, lo “spirito” europeo. E’ dichiaratamente non strettamente religiosa e laica la inevitabilità del dirsi “cristiani” che Croce rivendica.
Egli traccia una versione civile, laica, culturale del Cristianesimo che lo spoglia dei connotati dei riti, della credenza e dei “dommi”. E ne richiede la funzione, universalistica e laica, di origine e lievito dello spirito “liberale” europeo. La prospettiva “cristiana” è sintetizzata dal filosofo idealista nella “rivoluzione morale” rappresentata dal cristianesimo rispetto alle civilizzazioni e alle culture che l’avevano preceduto. Anche rispetto alla grandezza del pensiero, dell’arte e della cultura dell’ellenismo classico da cui il cristianesimo trae origine. Echeggiando in anticipo il Papa di Ratisbona, Croce specifica la “rivoluzione morale” del Cristianesimo come la più potente rottura filosofica e culturale della modernità. Che si sostanzia in un rovesciamento rispetto agli antichi: la rivoluzione cristiana, scrive Croce, porta il pensiero dell’uomo “al centro dell’anima”.
La centralità della “coscienza morale”, rispetto all'oggettivismo, alle mitologie, all'estraniamento delle vecchie religioni, è il prodotto umanistico della rivoluzione cristiana: il suo frutto più progressivo. La spiritualità cristiana, carburata dalla centralità della "morale" e dal concetto di "amore" per il prossimo diventa, scrive Croce, la base di un potente progresso civile e culturale che resiste anche alle resistenze buie dell’intolleranza, delle persecuzioni, delle intransigenze. Croce abbozza, in poche righe, il viaggio europeo che dall'Umanesimo, al Rinascimento, dal pensiero scientifico del Settecento all'Illuminismo alla riforma luterana e all'idealismo tedesco coronerà l'esito dello "spirito" liberale come tributario della originaria "rivoluzione morale" del Cristianesimo: una sorta, per Croce, di rivoluzione copernicana che spiega la specificità e le ragioni della civilizzazione europea. Il Cristianesimo, conclude Croce, in quanto prospettiva e spiegazione della storia civile e culturale europea è in qualche modo oltre la Chiesa.
E non "scriviamo”, dichiara Croce, “per gradire o sgradire gli uomini di Chiesa" quando rivendichiamo "l"uso di quel nome, cristiani, che la storia ci dimostra legittimo e necessario" ma per richiamare l'acquisizione del Dio cristiano come logica dello Spirito. Che, com'è noto, nel linguaggio idealista del liberale Croce non è altro che quella costruzione umana che trascende l'uomo: cultura, costume, stili di vita e di pensiero, storia. Di quella parte del mondo che ha conosciuto la "rivoluzione morale" del Cristianesimo. Croce deve oggettivare il significato del Cristo e non lo dice ma l'umanesimo come "rivoluzione dello spirito", umanistica e tollerante, e centralità della coscienza umana e' la stessa tensione che anima il tormentato cammino del giudaismo e la sua storia "europea": una grande cultura dell'uomo, risposta allo spaesamento della diaspora, che fa dire che lo spirito europeo è, certamente, giudaico-cristiano. Ecco: mi ricorderei del libretto di Croce e della sua idea civile, laica, culturale del "dirsi cristiani" quando discettiamo della simbologia cattolica nei nostri luoghi pubblici. Che è un richiamo di umanesimo, di cultura dell'amore e della tolleranza. E quando, stancamente e volgarmente, concediamo ragioni al carattere "offensivo" di un crocefisso o di un compassionevole canto di Natale.
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