Quel partito dei “sì, ma...” che giustifica il terrorismo in nome di Allah
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La paura e gli attentati dello Stato islamico non sono un mezzo o un macabro rituale ma una strategia che trova nella religione la sua motivazione. Perché le autorità islamiche non si ribellano?
di Franco Debenedetti | 25 Novembre 2015 ore 13:43 Foglio
Era il 2007, divampavano le polemiche sulla decisione di George W. Bush di attaccare l’Iraq, sul sostegno di Tony Blair e della coalizione dei volonterosi. All’Onu Dominique de Villepin, attingendo alla tradizione della grande retorica pubblica francese, pronunciava l’orazione contro la “muscolocrazia” degli Stati Uniti. Oggi Hollande vorrebbe convincere a un intervento concordato in Siria. Quelli che allora consideravano un errore abbattere Saddam per eliminare il suo terrorismo, e che addebitano a quella decisione il disordine su cui è cresciuto l’Isis, oggi sostengono Assad perché sconfigga il terrorismo dello Stato islamico.
Per l’Isis il terrorismo è mezzo di reclutamento. Non è un modo per stroncare il dissenso, ma per guadagnare consenso; non serve a mantenere il potere, ma a espanderlo. Nel 2007 siamo andati in guerra pensando che abbattere il terrorismo fosse la condizione per un nation building, adesso vogliamo abbattere quelli per cui il terrorismo è strumento di nation building. E anche quando, speriamo, saremo riusciti a sconfiggere l’Isis e a eliminarne i capi, il problema resterà il nation building senza terrorismo. Anche (o preferibilmente?) con un dittatore.
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Il terrorismo è per l’Isis un mezzo di reclutamento anche in Europa. Non possono pensare di convincere gli stati europei, a suon di massacri e di attentati, a ridurre la pressione militare in Siria; né che dei kamikaze riescano a mettere in ginocchio le economie del mondo intero. Il loro obiettivo può essere solo quella di conquistare il consenso tra gli islamici che vivono nei paesi d’Europa; la loro strategia quella di provocare una reazione che infiammi le periferie delle nostre città. E’ la stessa strategia che fu delle BR da noi e della Rote Armee in Germania, e a suo tempo dagli anarchici: colpire per provocare una reazione che porti a una rivolta. Ma mentre il terrorismo di sinistra colpiva obiettivi di grande valore simbolico, Aldo Moro o Hans Martin Schleyer, i terroristi islamici, come da noi quelli di Bologna e di Piazza della Loggia, sparano nel mucchio. Cadere in falli di reazione sarebbe fare il loro gioco.
A fare il loro gioco erano una volta quelli del “né con lo stato né con le BR”, e oggi lo sono quelli del “ sì, ma...”. Condannare Charlie Hebdo sì, ma anche loro a dileggiare una religione, se la sono voluta; non gli era bastato il regista Van Gogh? Certo che Bataclan è un orrore, ma anche Raqqa, vi pare giusto? Sgozzare i cristiani e dinamitare Palmira, no; però siamo stati noi a cominciare con Saddam. Accoltellare gli ebrei, magari no: però anche loro, con l’occupazione della Palestina. Nell’antisemitismo gli equilibristi del “sì, ma...” sanno di trovare un sicuro punto di incontro.
Sono agghiaccianti le opinioni raccolte dalla filosofa Alexandra Laignet-Lavastine (sul Figaro del 18 novembre) chiacchierando la mattina del 14 novembre con giovani musulmani in un bar sotto casa sua, nel dipartimento di Seine Saint-Denis. Per uno, gli autori della strage non possono essere musulmani: infatti uccidere è proibito dal Corano. Per un altro, il massacro di Charlie Hebdo è una messinscena della polizia, come fu della Cia l’attacco dell’11 settembre. Chiude un terzo: d’altronde lo Stato francese è una marionetta nelle mani degli ebrei, criminali con cui i conti si dovrebbero regolare col kalashnikov. Agghiaccianti: ma, magari coi missili al posto del mitra, non li abbiamo già sentiti in bocca a qualche nostro colto e acclamato “sì, ma...”?
Gridavano il nome Allah mentre sparavano quelli di Parigi, ammazzavano chi non sapeva recitare il Corano quelli di Bamako, tagliavano la testa a chi non si vuole convertire quelli della Siria. Questa non sarà una guerra di religione, ma negli atti di terrorismo islamico la religione è sempre presente. Non è parte di un macabro rituale, è funzionale alla strategia. Se l’obiettivo è quello di guadagnare consenso, la religione fornisce una giustificazione al terrorismo e allarga l’area di influenza ai tanti “sì, ma...” dell’altra parte: certo che ammazzare la gente non va bene, ma lo fanno per difendere la religione, i costumi (e i privilegi connessi). Come i nostri, ma ben più efficaci dei nostri, i loro “sì, ma...” sono “obiettivamente” di aiuto ai terroristi. Possibile che all’interno delle scritture e delle liturgie, non si riesca a trovare mezzi per tracciare una riga netta tra terrorismo e islam? Per i versetti satanici Salman Rushdie è stato colpito da una fatwa che l’ha obbligato a vivere sotto scorta per decenni. Ma scrivere un romanzo non può essere più grave che ammazzare al Bataclan, o fare esplodere un aereo in Sinai: possibile che nelle gerarchie islamiche non si trovi chi ha l’autorità per condannarli? Se come dicono gli intervistati del Figaro, il Corano impedisce di ammazzare, possibile che i “sì, ma...” islamici non trovino il mezzo almeno di levare ai terroristi l’alibi che gli fornisce la religione in questa vita, e le promesse che gli offre la religione nell’altra?
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