"Nella chiesa i puristi della misericordia passano all'epurazione dei nemici"
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La battaglia post Sinodo continua. Intervista al columnist americano Rod Dreher sull'appello di Massimo Faggioli e altri teologi internazionali contro Ross Douthat, l'editorialista conservatore del New York Times
di Mattia Ferraresi | 30 Ottobre 2015 ore 10:34 Foglio
New York. Una premessa: ieri su queste colonne è apparsa una sintesi incauta a proposito della lettera firmata dal teologo Massimo Faggioli e da altri illustri suoi colleghi sulla qualità del lavoro di Ross Douthat, columnist cattolico del New York Times che spesso si occupa di religione. La lettera effettivamente non formula una “richiesta di sollevare Douthat dal suo ruolo di opinionista”, come scritto, e Faggioli lo precisa in una replica molto cortese oggi a pagina quattro, ed è stato solo per un abbaglio che una missiva aperta, pubblica, corredata da una raccolta di firme autorevoli, indirizzata non ai lettori ma al direttore del New York Times, con accuse pesanti alle credenziali, alla visione politicista del cattolicesimo e all’uso improprio, offensivo di termini come “eresia” di uno dei suoi editorialisti sia stata scambiata per la richiesta di una sanzione. “If it looks like a duck”, uno pensa, probabilmente sarà un’anatra, invece era una nota per “informare i lettori del New York Times” che Douthat è, teologicamente parlando, un lupo travestito da agnello.
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Cosa c’entri in questa operazione di informazione dei lettori il direttore del Times a questo punto sfugge, ma cortesemente Faggioli fa sapere che nel parapiglia parateologico da periferie dei social media, e che però riflette un importante scontro fra visioni della chiesa in un momento di passaggio e trasformazione, c’è un elemento grave: “L’accusa di eresia fa parte del modus operandi della cultura cattolica di cui Douthat è espressione”. Il termine “eresia” non gli è scappato per caso in un tweet, non è un accidente. E’ un fatto strutturale, parte del suo modus operandi, la cultura in cui sguazza usa l’accusa di eresia come un’arma tanto da “stilare vere e proprie liste di proscrizione contro teologi cattolici americani” (si spera, fra l’altro, che il “vere e proprie” sia un’iperbole, oppure c’è davvero una ricompensa pubblica per chi uccide un teologo cattolico americano?) che si oppongono a una certa sensibilità che per comodità si può definire conservatrice.
La verità, dice Faggioli, è che sono sotto attacco “cattolici che, al contrario di Douthat, avevano speso la loro intera vita studiando e insegnando teologia, e soprattutto servendo la Chiesa”, dicendo implicitamente che l’editorialista non serve la chiesa, pur essendo cattolico. Un casuista normodotato potrebbe dedurne che sta accusando Douthat di eresia.
E qui si conclude la premessa. Anche perché già padre James Martin S. I. sulla rivista America aveva criticato il comportamento non illecito ma “sinful”, peccaminoso, dell’opinionista emerso dal mondo che stila vere e proprie liste di proscrizione, e quindi si rischia di ripetersi sulla malvagità interessata di Douthat, concetto che a questo punto sarà chiaro anche ai lettori del Foglio, oltre che a quelli del New York Times. Nella disputa son volati ceffoni teologici, dai conservatori di First Things ai gesuiti di America, fino agli interventi di singoli firmatari della lettera. Plotoni di teologi (e non) si sono mobilitati per combattere gli avversari in questo “heresygate”.
Qualcuno la butta sui limiti della libertà d’espressione, altri sulla possibilità per i soli teologi opportunamente addottorati di discettare in modo credibile della materia, altri ancora ne fanno una questione di professori permalosi che vogliono schiacciare i loro avversari per vendicare “le azioni di polizia dottrinale” (copyright Faggioli) subite in età pre-Francesco. L’allargamento, anche un po’ confuso, mette in chiaro che la piccola polemica intorno a Douthat non è che un casus belli, il segnacolo di una più ampia disputa sulla direzione del cattolicesimo sotto Francesco e sul rapporto fra la chiesa e il mondo in questo momento storico.
Fra i più battaglieri in questo contesto c’è Rod Dreher, intellettuale titolare dell’Opzione Benedetto, un ortodosso che per 13 anni è stato cattolico e scrive su The American Conservative, testata che mette la sua posizione al di sopra di ogni ambiguità. In questi giorni ha attaccato i teologi “permalosi” e di professione che si sono avventati su Douthat (anzi sulla sua concezione: si tratta di depersonalizzare la polemica), citando fra le altre cose che vacillano nell’argomento anche la firmataria Katie Grimes, teologa della Villanova University che scrive autorevoli paper sul fatto che il leggendario rapper Tupac Shakur “costruisce un’estetica teologica della liberazione tesa a illuminare l’ingiustizia e le implicazioni cristologiche del ghetto ipersegregato”, roba da farci un Sinodo.
Dreher vede nell’aggressione (legittima difesa, direbbe qualcuno) a Douthat non soltanto una questione teologica ma l’esempio di una mentalità irrorata dal pensiero liberal secolarizzato, una ingerenza ideologica del mondo nel perimetro della chiesa. Stringi stringi, una faccenda di potere. Al Foglio spiega: “La sinistra in questo paese ha abitudini retoriche con una forte tendenza passivo-aggressiva. Amano parlare di ‘dialogo’, e usano un linguaggio irenico, spesso terapeutico che maschera la loro reale intenzione, che è il potere. In molti casi, penso che questi progressisti nascondano anche a loro stessi i propri scopi dietro un linguaggio orwelliano. Non è soltanto una questione cattolica o teologica. La maggior parte della gente in questo paese che ha lavorato per una grande azienda ha dovuto sopportare il cosiddetto ‘diversity training’, che ti costringe ad ascoltare lezioni sulla tolleranza nei confronti degli altri. E’ una buona cosa tollerare le differenze, viviamo in un paese pluralistico. Ma se passi un po’ di tempo in compagnia di questi ‘true believer’ della diversità, ti rendi conto che la diversità non c’entra niente, ma si tratta di stabilire una narrazione di sinistra molto particolare, che dichiara ogni forma di dissenso come razzista, sessista, omofoba e via dicendo. E’ un modo per presentare il dissenso come immorale, perfino patologico”.
Per Dreher è nell’alveo di questa cultura liberal, nella sua particolare forma americana, che va rintracciato l’atteggiamento di chi vuole screditare Douthat e altri intellettuali della stessa area: “Per me è incredibile che un teologo, Massimo Faggioli, e i suoi colleghi che hanno firmato la lettera si siano spinti tanto lontano. Cosa avrebbero fatto al concilio di Nicea, dove san Nicola ha dato uno schiaffo all’eretico Ario? E questa gente oggi non sopporta un tweet? Battute a parte, penso che l’élite dei cattolici liberal non sopporti che qualcuno critichi le sue idee, e le critichi in modo efficace, specialmente uno come Douthat. Questa storia in fondo non ha nulla a che fare con la teologia di Douthat: la verità è che Douthat, scrivendo le cose che scrive sul New York Times, ai loro occhi è un traditore della loro classe intellettuale. Questa gente pensa di essere chiamata a guidare la chiesa, e non può sopportare quando qualcuno di intelligente e ortodosso li mette in discussione. Tutte le parole sulla misericordia, la gentilezza e altre cose molto carine sono soltanto retorica ingannevole. Questa è gente dura. E sappiamo per esperienza che quando la sinistra teologica parla della necessità del ‘dialogo’ in realtà intende: ‘Continuiamo a parlare fino a che non dici ciò che vogliamo, poi ti eliminiamo’”.
William Buckley, che era conservatore e anche cattolico del genere “vere e proprie liste di proscrizione”, lo diceva con una battuta diventata famosa: “I liberal dicono di voler ascoltare anche altri punti di vista, ma poi sono scioccati e offesi quando scoprono che esistono altri punti di vista”. Dreher mette in chiaro che Douthat è un amico, “quindi sento la questione anche per questo”, ma è molto più di una questione personale: “E’ parte di una tendenza, molto forte nelle università americane, di depurare il discorso pubblico da parte della sinistra, usando il concetto di ‘sicurezza’. La sinistra mette a tacere i suoi oppositori dicendo che le visioni dissenzienti su sesso, gender, razza e omosessualità li fanno sentire ‘insicuri’. Vediamo sempre più spesso nella vita pubblica questa strategia usata nell’accademia, ed è terrificante”, spiega Dreher.
Ma cosa c’entra questo con la chiesa? “C’entra eccome – spiega Dreher – perché le comunità cristiane sono particolarmente vulnerabili a questa mentalità, perché l’idea della carità è alla base del nostro pensiero morale. Quando però qualcuno manipola concetti come carità, giustizia, gentilezza e via dicendo per perorare la causa della falsità e, sì, dell’eresia, è oltraggioso. Parte del problema teologico è che sempre meno persone pensano che esista ‘l’eresia’. Nel 2102 Douthat ha pubblicato un libro in cui spiega che la maggior parte degli americani oggi sono eretici, in un modo o in un altro, perché abbiamo perso il senso di una verità religiosa, così come viene definita nella tradizione da istituzioni autorevoli. Anche se non sono più cattolico lo sono stato per anni, e ho spesso discusso con persone che ritenevano falsi alcuni insegnamenti della chiesa, eppure si proclamavano lo stesso cattolici. E’ una cosa comune. Cattolici come Douthat credono che quello che la chiesa insegna sia vero, e che in gioco c’è davvero la salvezza delle anime. Quello che è successo è uno scandalo per molti teologi cattolici di professione, che considerano questioni che riguardano la vita eterna come un gioco di potere”.
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