EL GOTO DE BIANCO IL PRIMO DI AGOSTO NEL TREVIGIANO
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Episodio storico o leggendario, che vuole che all'alba del primo agosto si beva un 'cin' di vino bianco
di Sante Rossetto, da Quaranta racconti trevisani. Edizioni –Canova, da Oggi Treviso, 2017
Gli ultimi giorni di luglio il nonno sorridendo soddisfatto diceva: «Fra poco sarà agosto e el primo bevaremo un goto de vin bianco apena vegnesti su dal leto, a stomego nudo». I nipoti si guardavano stupiti interrogandosi con gli occhi. «Come se fa a bevar vin apena vegnesti su dal leto e sensa magnar?» E allontanavano quella fastidiosa prospettiva. A loro andava benissimo una buona scodella di polenta e latte.
Vino bianco nelle case non se ne trovava molto. Era troppo delicato e, quasi sempre, ad aprile con i primi caldi “el faxea el bałon” diventando torbido che pareva caffelatte. Allora bisognava buttarlo. Ed era un vero peccato con quel poco che se ne produceva che era una delle poche leccornie concesse alle povere famiglie. Si preferiva coltivare uva nera, merlot o cabernet, che dava un vino più robusto ai cambiamenti climatici e si poteva berlo fino alla prossima vendemmia.
Ai primi di agosto maturava anche il bacò, un vitigno che offriva grappoli neri molto dolci che piacevano tanto a bambini e ragazzi. Le piante erano poche perché serviva solo come uva da mangiare e non per fare vino.
Per bere el goto de bianco il primo di agosto bisognava, quasi sempre, andare a comperarne una bottiglia in osteria. Il vino veniva messo in un posto ben rinfrescato della cantina per essere portato in tavola il giorno dopo. La bottiglia dal colore paglierino troneggiava invitante la mattina. Gli uomini avevano finito i lavori in stalla, le donne quelli in cucina e i bambini si stavano svegliando che il sole era già bello gagliardo.
Quando tutti erano pronti per la colazione il nonno versava un bel bicchiere di bianco per sé e uno per i grandi donne comprese. Poi ognuno assaporava quella delicatezza fuori stagione con una ritualità antica. «El xe contro e freve» sentenziavano i grandi e anche la nonna annuiva asciugandosi le labbra con il dorso della mano callosa. I bambini venivano invitati ad assaggiarne un po’, poco più che per bagnarsi le labbra perché a loro quella usanza era incomprensibile. Ma anche loro dovevano essere protetti dalle febbri. «E freve? – dicevano i ragazzi – De istà no capita e freve. Quełe e vien de inverno col fredo, no col caldo. Mi no e ciapo gnanca quando che voo a noar sul canal».
Se chiedevano qualche spiegazione si sentivano rispondere che «e freve e pol capitar senpre». Loro non capivano, facevano spallucce e tornavano ai loro giochi.
Ma in quel detto che i grandi non sapevano spiegare c’era una fondatezza storica o leggenda se così la si vuole intendere. La vicenda risale a molti secoli prima quando, attorno al 1200, la regina d’Ungheria, Gertrude, stava viaggiando da Quarto d’Altino in direzione di Padova. Arrivata a Mogliano, che a quel tempo era una vasta palude popolata di zanzare, la nobildonna fu colta da un attacco di febbre malarica. Ammalata, fu ospitata nel convento benedettino femminile che sorgeva in quella località e affidata alle cure della badessa. Ma ogni terapia appariva inutile, la febbre non accennava ad andarsene, la regina si sentiva ogni giorno più male e non si trovava alcun rimedio. La situazione era così drammatica che il primo di agosto Gertrude arrivò a perdere conoscenza.
Che cosa fare per salvare la nobildonna? Tutti i rimedi provati non erano serviti a niente. La badessa, allora, scese in cantina dove stava fermentando il mosto dell’uva primaticcia di S. Anna, che in quel tempo era molto diffusa e coltivata. Riempì una brocca di quel liquido dolce e frizzante e la portò alla regina. «Con questo guarirà» affermò la suora alle consorelle che le erano attorno e fecero bere l’intera brocca a Gertrude. Che la badessa ci credesse o meno oppure che avesse tentato la carta della disperazione rimane il fatto che la sera del primo di agosto la regina si sentì meglio e pochi giorni dopo poté, guarita, riprendere il suo viaggio per Padova.
Ma l’efficacia di quella strana cura e dei suoi miracolosi effetti aveva ben presto conquistato tutti, e non soltanto a Mogliano ma anche nel territorio della Marca. Così da quel giorno per secoli la piacevole e gustosa tradizione del goto de bianco ha continuato ad essere apprezzata e praticata. E c’è ancora chi, anche oggi, non ha perduto la gustosa usanza.