In che senso ha ragione il Cav. quando dice che a Roma è una storia fascia
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“E’ una riedizione in scala millimetrica di vecchi conflitti. Berlusconi ha una chance: mollare i lepenisti”, dice Fini
di Salvatore Merlo | 17 Marzo 2016 ore 06:27 Foglio
Roma. “Salvini gioca la sua personale partita per la leadership a destra. Di vincere o di perdere a Roma gli importa poco”, dice Gianfranco Fini. Ma sottotraccia, e questo il vecchio padrone di An lo sa bene, sullo sfondo di questo marasma romano ci sono le ultime recriminazioni coniugali e condominiali di quello che fu il Msi, e poi Alleanza nazionale, gli stracci della storia, i rimasugli andati a male di una federazione di tribù che si è sciolta: “Meloni si candida per disperazione, per contendere pochi voti di destra a Storace”, mormora Fini, “è una riedizione in scala millimetrica di vecchi conflitti, vecchie storie…”. E insomma a Roma si candida Meloni e lo fa contro Guido Bertolaso, e dunque con Matteo Salvini ma contro Silvio Berlusconi. E mentre la destra esplode pure a Torino, e mentre Flavio Tosi lancia anche lui una sua strana candidatura in Campidoglio, in questo marasma, il Cavaliere sfodera la parola “fascisti” per scagliarla sugli uomini della Lega nella capitale, alludendo così a un conflitto tra consanguinei, tra missini, roba che viene da lontano.
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Ed è un paesaggio di schiume, bave, cocci, opposti richiami, urla e imbonimenti, trattative segrete e malaccorte questo in cui sembra collocarsi il crepuscolo esistenziale di quella che fu una comunità. S’intrecciano aspirazioni e tentativi di sopravvivenza, in un kaos che accenna all’origine di qualcosa o forse alla fine di tutto: fu nel 1993 che Berlusconi sostenne la candidatura di Fini a sindaco di Roma, cavò l’Msi dal buco postfascista durante un rito in un supermercato, e plasmò così il centrodestra che avrebbe poi vinto le elezioni del 1994. “Sono passati ventitrè anni, ma sembrano due secoli”, dice adesso Fini, quando glielo si ricorda. “Ora Salvini, con modi schietti e brutali dimostra che il modello aggregativo del passato è pura utopia. Salvini, con Meloni, che pure ha dimensioni più modeste, fa il blocco populista, lepenista. Ma in Francia l’Ump non ci pensa nemmeno ad allearsi con Marine Le Pen, così come Angela Merkel non corteggia l’estrema destra di Afd. Anche Berlusconi dovrebbe trarne le conseguenze”.
Ma non c’è soltanto la scalata di Salvini, né sono sufficienti le difficoltà di Berlusconi a spiegare il pazzotico disordine romano. Gratta gratta si scopre l’incantesimo distruttore della destra che fu missina: un tumulto dello spirito dovuto alla logica del branco contro branco. E dunque Alemanno e Storace da una parte, La Russa e Meloni dall’altra; e poi Gasparri, Andrea Augello, Fabio Rampelli, i camerati romani passati con la Lega: cattivi gli uni con gli altri, ognuno a motivo di personale sopravvivenza. Un tempo bastava uno sguardo, una smorfia sulle labbra a filo d’erba, uno sbadiglio sprezzante di Fini. Per anni, dal seppellimento dell’Msi in poi, la gerarchia fu chiara e dura: un solo capo, un pugno di colonnelli e un’adunata di militanti. “Quello che succede a Roma è un po’ come la vicenda della Libia. Quando fai fuori Gheddafi, poi ti trovi lo scontro delle tribù”, dice con un soffio d’ironia Italo Bocchino, che fu allievo e scudiero di Pinuccio Tatarella. E insomma continua il congresso di An, ma in versione spelacchiata. E allora raccontano che se a Roma il candidato sindaco del centrodestra non è Alfio Marchini è per via della rivalità tra gli ex missini, per i veti incrociati tra Meloni e Storace, tra Gasparri e Meloni, tra Rampelli e Augello: vecchie storie che si perdono lungo la vertiginosa parete del tempo. Dicono che quando Storace, mesi fa, chiese di entrare in Fratelli d’Italia, la Meloni prese tempo, ingelosita, e poi lo rifiutò facendolo inalberare. Così quando Storace, per ripicca, ha deciso di candidarsi a Roma, lei gli ha scagliato addosso quell’Alemanno (“non ci sarà l’ombra di Alemanno”), di cui pure Meloni aveva voluto il nome nel simbolo di Fratelli d’Italia alle ultime elezioni. La destra vale l’8 per cento a Roma, ed è per strappare brandelli di questo piccolo consenso che loro avanzano coltello tra i denti, epigoni d’una storia nuda, tutta ricordi, soprannomi, invocazioni intorno a un mondo perduto. Arriva persino Tosi, che da ragazzo militò nel Fuan. Una storia che comincia con lo squartamento di quella vecchia.
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