Renzi spiegato facile a D’Alema
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Il centrosinistra ha perso tutto ciò che poteva perdere da Gargonza in poi, in una continua rissa di leadership e trabocchetti che ne hanno fatto il partito della fazione invece che della nazione. Appunti sul metodico delirio di Max
di Giuliano Ferrara | 12 Marzo 2016 ore 06:14 Foglio
Cala la rata del mutuo ma non la sicurezza di sé di Massimo D’Alema. Dice che Renzi ha sbagliato in Libia, dove al posto di Prodi, che sarebbe stato un mediatore eccellente della comunità internazionale, forse voleva mandare Verdini. Risate della platea di rifondazione o come si chiama, che lo ascolta come un profeta. Dice a Cazzullo, nel Corriere di ieri, che bisogna ricostruire il centro sinistra in Italia, che il Pd perderà ovunque le elezioni amministrative e, se non recupera a sinistra ciò che velleitariamente sacrifica al partito della nazione, perderà anche le politiche, a favore di Grillo o della destra; dice che la nuova classe dirigente democratica, che ha pensionato i vecchi e non li consulta, è arrogante, faziosa, confusa, inesperta, autoreferenziale; che a sinistra sta maturando probabilmente l’esigenza di un nuovo soggetto, leggi partito; che le radici del Pd, comuniste e cattolico-democratiche, Renzi le ha distrutte, disprezzando l’esperienza di governo del centro sinistra, con grave danno per sé stesso e per il paese; che la crescita è modesta, meno della metà di quella tedesca, e a parte gli 80 euro, il resto del governo Renzi è trascurabile; che nelle città i candidati del Pd fanno sorridere, mentre alcuni suoi amici come Massimo Bray sono autorevoli; che le primarie sono un insieme di imbrogli senza regole o senza rispetto delle regole, come dicono al Giornale e su Libero; che la maggioranza renziana è fatta di berlusconiani ex ciellini e di Verdini, che per ricostruire il centro sinistra bisogna battersi e non più solo all’interno del Pd, dove la minoranza non conclude alcunché; che al referendum sul Senato e a Roma voterà come gli pare; dopodiché, conclude D’Alema, e qui non sbaglia, Renzi ha qualcosa di Berlusconi, più che di Prodi o di D’Alema stesso (questa non è nuova per noi fasciorenziani), e Verdini è intelligente, conosce la politica ed è anche lui preoccupato. Per fortuna sua D’Alema si occupa di politica estera, viaggia molto, e la sua expertise è così richiesta nel mondo e in Europa che non gli resta tempo per approfondire i suoi giudizi sulla politica italiana, di cui ha ormai un’esperienza vaga, defilata, ma sempre diciamo precisa, diciamo.
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Perché sarebbe facile rispondere a D’Alema che nel suo delirio si vede un metodo, ma delirio resta. Inteso come Ulivo, il centrosinistra ha perso e riperso tutto quello che poteva perdere da Gargonza in poi, in una continua rissa delle leadership, in una sfilza di trabocchetti incrociati che ne hanno fatto il partito della fazione invece che della nazione. La vecchia classe dirigente del Pd è stata selezionata per l’uscita da elezioni primarie congressuali che hanno portato un giovane uomo nemmeno quarantenne al vertice del partito, con un programma di riforme e politica della nazione non identificabile nelle ventennali cacce all’uomo e nello strepito in difesa del comune senso del pudore, dopo i fasti dell’antiberlusconismo e del classismo sindacal-corporativo, fra gli applausi eccitati e anche eccessivi dei vecchi militanti alle feste dell’Unità, mentre D’Alema si vantava di non aver mai perso un congresso. I socialdemocratici a Berlino stanno sotto i tailleur quadrati di Frau Merkel. A Londra si battono per il socialismo dell’Ottocento con Corbyn, una caricatura uscita da un racconto sociale di Dickens. A Parigi sono alla vigilia di una prodigiosa sconfitta, e non riescono a fare le cose elementari che Renzi ha realizzato con abilità e passione a Roma, tipo articolo 18 o Jobs Act produttivo di dinamica e svolta nel mercato del lavoro. A Madrid sono minacciati dai baci in bocca di Pablo Vasa Iglesias, ma con i Ciudadanos non vanno lontano. In Grecia si salvicchiano, allontanatisi dal baratro verso cui li spingevano i Varoufakis, le Spinelli e i Maltese, autorevole candidato a Milano pure isso, con Tsipras che ha fatto il suo clic (“l’altro Tsipras con l’Europa” invece che “l’altra Europa con Tsipras”). In questo contesto risulta come minimo bizzarro, Trump adveniente in Washington, scagliarsi contro una leadership rinnovata, non bacucca, e contro il partito della nazione al governo che cerca di organizzarsi in maggioranza a partire da radici di sinistra liberale e democratica, senza la zavorra delle cattive politiche dei centrosinistra eterodiretti del passato (Cofferati, do you remember Massimo?) e vanitosi (“bye bye Condi” sussurrato nelle acque di Marettimo, do you remember Massimo?).
D’Alema si dà sempre arie di realista e di togliattiano, tanto per stare alla contemporaneità. Vanta eccelsa esperienza di lotta e immensa cultura politica. Vabbè, perché no? Ma parlare con disprezzo dell’idea stessa di un partito della nazione è contrario a tutte le premesse della sua ex cultura politica. Dovrebbe saperlo. Il Pci, che era diverso dal Pds, dai Ds o come si sono poi chiamati, ha passato l’intero corso della sua storia alla ricerca di una legittimazione e di una egemonia che quello significavano, partito della nazione. La Dc era il partito del Vaticano, a suo modo internazionalista, il Pci voleva essere partito della nazione, della via italiana, voleva essere eccezione ed esperimento in Europa, e perfino il suo noto internazionalismo pro sovietico, da Stalin a Gorbaciov, si misurò sempre, fino a Berlinguer, con questa idea di allargare la base imponibile della politica riformatrice (svanite le brume della dittatura del proletariato), volta a volta con i cattolici, con una parte della Dc, con settori laici e socialisti disponibili. Segno dei tempi che ora il miglior fico di quel bigoncio, così dice di sé, si diletti, a parte il giudizio chirurgicamente esatto su Verdini, con il revival dell’Ulivo contro il governo (“non è il tipo, Renzi, da staccarsi dalla poltrona di capo del governo”: che linguaggio sciocco e risentito, signora mia).
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