Qualche verità su Trump e Berlusconi
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Le somiglianze ci sono, ma con le differenze come la mettiamo? Berlusconi ha salvato la Repubblica dagli assassini dei partiti, Trump è un avversario della Repubblica americana. Storia di un circo. Uno promettente, l’altro minaccioso
Silvio Berlusconi e Donald Trump
di Giuliano Ferrara | 05 Marzo 2016 ore 06:18
Le somiglianze tra il fenomeno Trump e il fenomeno Berlusconi sono impressionanti, è fin troppo facile dirlo sebbene se ne taccia per lo più. Le elenco. Trump è un miliardario, un tycoon. Ha agito con alterni successi, e alla fine ramazzando un patrimonio assai notevole, nei campi dell’immobiliare (Milano 1, Milano 2) e della televisione, per un periodo essendo divenuto la star del reality. Vende il suo brand, in economia e in politica: repubblicano, democratico, conservatore, opportunista, boh, quel che è sicuro è solo questo, che Trump è Trump. Parla una lingua scandalosamente estranea a quella dell’establishment politico, il principale fattore del suo successo popolare o populista, fate voi, è che “la dice tutta”. Il suo slogan, “Make America Great Again”, è un calco preciso, meno la fantasia funambolica che è nel miracolismo, del famoso “Grande Miracolo Italiano” del 1994. Nei comizi non c’è un istante in cui non dica “I love you”, cioè l’Italia è il paese che amo, incipit fatale del ventennio del Cav. Afferma di essere del tutto indipendente dai donatori di quattrini alla politica, perché se la paga lui, come l’altro. E’ l’oppositore in chief del “teatrino politico” di Washington. I suoi avversari lo dipingono come un “con artist”, un imbroglione, un fraudolento. Sounds familiar? E’ già pronta l’accusa di collusioni con la mafia di Anthony “Fat Tony” Salerno e di Paul Castellano, padrini dei clan Gambino e Genovese, i suoi stallieri di Arcore. Al suo business, che è da lui descritto come la vera fonte di un successo da proiettare nella politica americana, travolgendola con una promessa di arricchimento collettivo, non si rimproverano i debiti, come fu con il Cav., ma i fallimenti, quattro, e uno statuto fiscale poco chiaro (frode fiscale?). E’ anch’egli il Cavaliere nero come lo sdoganatore di missini, perché David Duke, suprematista bianco ex Ku Klux Klan, dice di voler votare per lui, e lui alterna dissociazioni, smentite e seduzioni (anche lui, per la satira, mente sapendo di smentire). Per il numero di mogli, vince tre a due, per il resto del diletto il nostro Casanova non ha notoriamente rivali. Ha fondato una Università, la Trump University, alla quale è rimproverato, complicazioni giudiziarie comprese, il carattere fictional (ricordo che la nostra magnifica università del pensiero liberale, villa Gernetto, deve sempre essere inaugurata con una prolusione di Sir Vladimir Putin, amico di entrambi i tycoon).
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Ma andiamo avanti. Dà voce a chi sente di averla perduta. E’ il profeta del common man, del ceto popolare medio e medio-basso che si radicalizza nella crisi dove la crescita americana non fa reddito, non fa abbastanza mobilità di status sociale. E’ percepito come un clown pericoloso, dialoga demagogicamente con il suo pubblico, è abile nella manovra di divisione dell’avversario e di polarizzazione su di sé dell’intero dibattito nazionale e oltre, fa ombra a tutti. Come Berlusconi. Come Berlusconi è esplosivamente individualista, autoritario o personalista soft, leadership e movimento sono lui stesso, incarnazione mitica, ma al tempo stesso è un conservatore e un liberale molto particolare, ama lo stato, non promette riforme delle pensioni e della sicurezza sociale, accetta nella sostanza la “scandalosa” riforma sanitaria di Obama (“non voglio gente che muore nelle strade respinta dai centri di cura!”, esclama a ripetizione), sebbene dica anche il contrario, e dei princìpi non negoziabili non vuole nemmeno sentire parlare (“aborto? No, grazie” sarebbe una piccola lista sua concorrente fallita, come avvenne con il Cav. nel 2008). E’ un superguascone, vuole far pagare al Messico il muro alla frontiera contro gli immigrati, vuole ridare al popolo milioni di posti di lavoro tassando le corporation che investono e delocalizzano nei mercati aperti in tutto il mondo. Vogliamo frivolmente aggiungere che la coiffure (e la mimica) dice qualcosa, in fatto di affratellamento, nell’uno per umanissimo difetto tricologico e nell’altro per un’esuberanza belluina da riporto? Aggiungiamolo, abbondiamo.
Ora, su questa base che a me pare solida di somiglianze, di affinità addirittura troppo dirette e trasparenti, vediamo il resto. Che è altrettanto se non più importante, e parla decisamente a favore di quella nobile anticipazione storica del fenomeno Trump che abbiamo conosciuto e ardentemente sostenuto o fieramente avversato per vent’anni, qui, nella provincia dell’impero che ne è anche la capitale culturale e il laboratorio istituzionale (il fascismo e la leadership dell’outsider, quella grossa, spessa, credibile, ma anche pop e rutilante, siamo noi ad averli inventati, chiaro?, l’America di oggi nasce nel reaganismo brianzolo). Berlusconi faceva l’occhiolino alle paure e alle frustrazioni diffuse, ma era ed è un tremendo ottimista, un formidabile evocatore di sogni, non di incubi. Il miracolo nuovo italiano, e grande, puntava su meno stato, almeno sulla carta, e sulla libertà fino ad allora sconosciuta al lessico politico nazionale, l’America di nuovo grande è restauratrice, chiusa, odiosa, filistea. Berlusconi fu un grande rassembleur, un federatore di tutto quello che non si identificava con l’ideologia e la prassi della sinistra, per di più di eredità cattolico democratica e comunista; Trump è un tipo che divide quel che prima di lui, non solo nel successo con Reagan e i Bush e i neoconservatori, ma con il glorioso fallimento di Goldwater e del suo estremismo conservatore-liberale, era stato unito, federato e portato sulla scena. Il Cav. diede all’Italia l’incarnazione del maggioritario, lo ha fatto funzionare, ha creato l’alternanza sconosciuta fino ad allora di forze diverse alla guida del governo e dello stato; Trump promette l’inverso, un meccanismo di blocco delle alternative, di indebolimento fatale della constituency della destra repubblicana. Ha anche lui i suoi ammiccamenti, e ne riceve, molti anche tra i radicali e i liberal lo preferiscono, più o meno clandestinamente, a un Ted Cruz, perché certo the Donald tutto è tranne che un bigotto, un disciplinatore di valori. Poteva fare tutto questo casino sul versante democratico, dove molti punti programmatici lo avvicinano al delirio di Bernie Sanders, uno che secondo lo spiritoso senatore Lindsey Graham è “andato in viaggio di nozze a Yaroslav, in Unione Sovietica (vero, ndr), e non è mai tornato”.
Berlusconi è molto simpatico, è insieme formidabile e buffo, mentre Donald è entertaining, questo sì, non lo si può negare, ma ha un ghigno sospetto e ciarlatanesco che lo accompagna in tutte le sue avventure, anche quelle di jet setter e di cocco della East Coast newyorchese. Infine, Berlusconi ha in qualche senso salvato la Repubblica da chi aveva assassinato i suoi partiti, è uomo di sbocco e di incanalamento delle forze, Trump è fino a prova contraria un avversario della Repubblica americana per tutto quello che ha significato e significa nel mondo. Certo, nelle mani di Obama per otto anni, l’America ha trovato un destino manifesto di miniaturizzazione delle sue ambizioni mondiali e della sua funzione di portabandiera delle libertà a ogni latitudine, si è chiusa e si è isolata pericolosamente con una politica estera cinica e di modesto opportunismo, in più è vissuta solo di retorica multiculturale. Trump è in questa accezione la risposta politicamente scorretta all’ideologismo liberal di Yale e di Harvard, e alle sue capriole ora si contrappone, con funzione di nemesi, il suo incredibile numero da circo. Fatte le analogie e le differenze, bisogna pur dire che Berlusconi era promettente, Trump è minaccioso. Il che è un bella differenza. Mi si dirà che l’America è come lo struzzo e lo spirito, durissima coquit, digerisce tutto. Lo spero.
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