I paradossi dell’antimafia che giudica la sua immagine allo specchio
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La battaglia a Palermo e il tentativo acrobatico della Commissione di separare l’antimafia buona da quella cattiva
di Salvatore Merlo | 05 Dicembre 2015 ore 06:27 Foglio
Roma. Formalizzata nel 1963 e costituita tra mille difficoltà, scetticismi e torbide resistenze in un periodo storico in cui in Italia si maneggiava davvero e senza cautela il famoso “la mafia non esiste”, la Commissione parlamentare antimafia, composta da venticinque deputati e venticinque senatori, e presieduta in questa legislatura da Rosy Bindi, adesso intende distribuire a mezzadria torti e ragioni, separare l’antimafia buona da quella cattiva, distinguere insomma la nuova inquietante antropologia degli antimafiosi-mafiosi, rivelata dalle indagini giudiziarie a Caltanissetta e a Palermo, da quella dei veri antimafiosi, vorrebbe distribuire patenti di autenticità. Dal caso Saguto fino all’affaire della Confindustria siciliana. Ma non solo.
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E già nell’immagine dell’antimafia che indaga l’antimafia, in quello che anche Claudio Fava definisce “un paradosso” (seppure, dice il vicepresidente della Commissione, “apparente”), è in una certa misura contenuta la sensazione di un ossimoro, d’un groviglio, forse del solito pasticcio italiano che si consuma in un’istituzione pubblica, parlamentare, dunque politica, talvolta (e spesso non a torto) sospettata d’essere asilo del più cinico professionismo antimafioso, strumento di ripicche, serbatoio propellente per carriere all’interno dei partiti, una carambola di potere capace, in questa legislatura, ed è solo un esempio, d’imbarcarsi nell’acrobatica operazione di compilare quella famosa lista di “impresentabili” con la quale è stato condizionato il dibattito pubblico a due giorni dal voto per le regionali di maggio 2015.
E da cinquantadue anni la Commissione audisce, ascolta, rileva, compila faldoni che potrebbero riempire parecchie stanze fino al soffitto, in un impasto imprendibile di ambizioni e di buone intenzioni, di strumentalità e di onesta passione, gli stessi inafferrabili ingredienti di cui è composta tutta l’antimafia, civile, politica e associativa – come ha rivelato la magistratura – quella stessa antimafia che la Commissione ora vorrebbe indagare e passare ai raggi X, distribuendo patenti. Ma si può indagare su se stessi? Può l’antimafia giudicare la sua immagine riflessa allo specchio?
Un anno fa, il prefetto Giuseppe Caruso, oggi in pensione, ma allora direttore dell’Agenzia dei beni confiscati alla mafia, si presentò di fronte alla Commissione presieduta da Rosy Bindi. E con ritmo algebrico, Caruso, un vecchio uomo di carriera, iniziò a raccontare una serie di fatti di cui era a conoscenza, e di altri che invece sospettava soltanto, e che pure gli sembravano anomali. Fece il nome del giudice Silvana Saguto, poi dell’avvocato Cappellano Seminara, e insomma di tutti gli attori e le comparse di quella squallida commedia palermitana che adesso tutti conoscono per via delle indagini della procura di Caltanissetta. E più Caruso parlava più andava dipingendosi, di fronte alla Commissione antimafia e alla sua presidente Bindi, il quadro inquietante di un’antimafia che specula, di un’antimafia ladra, di un’antimafia che occhieggia al malaffare. Ma più Caruso parlava, più Bindi s’irrigidiva, si spazientiva, fino a interromperlo bruscamente. Lo stenografico della seduta è di una esemplare chiarezza narrativa: Caruso fa un nome, e Bindi respinge la “delegittimazione”. Caruso accenna a un collegamento familistico, e Bindi liquida “l’accusa generalizzata al sistema”.
Compito statutario della Commissione antimafia è “verificare l’adeguatezza delle strutture preposte alla prevenzione e al contrasto dei fenomeni criminali nonché al controllo del territorio anche consultando le associazioni, a carattere nazionale o locale, che più significativamente operano nel settore del contrasto alle attività delle organizzazioni criminali di tipo mafioso”. E insomma il compito della Commissione sarebbe stato quello di ascoltare Caruso, e poi di verificare tutte le circostanze e i dubbi che il prefetto stava sollevando. Al contrario, alla Commissione, e alla sua presidente, è venuto naturale, istintivo, d’immaginare che quelle perplessità fossero propedeutiche alla delegittimazione di personaggi molto esposti nel contrasto alla criminalità organizzata, quasi una bestemmia rivolta a una élite impegnata in un’attività sacrale e dunque non criticabile, che è il modo in cui l’antimafia – e dunque anche la Commissione antimafia – percepisce se stessa, al punto da essere stata individuata dalla mafia, cioè dal nemico, come un formidabile guscio nel quale ripararsi. Adesso la Commissione immagina di poter distribuire attestati di purezza antimafiosa. Ma come? Come con Caruso? Come si può giudicare, onestamente, la propria immagine riflessa da uno specchio?
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