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Che ci dicono dei partiti le trame e i pasticci sulle nomine alla Consulta (intanto un altro rinvio)
di David Allegranti | 01 Dicembre 2015 ore 19:43
Roma. Gli aruspici, dopo aver guardato nelle interiora parlamentari, avevano sentenziato fin dal giorno prima: i tre giudici mancanti della Consulta non saranno eletti neanche alla ventottesima votazione. E così è stato, a nulla sono serviti i moniti del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e del presidente del Senato Pietro Grasso. Martedì nessuno dei candidati ha raggiunto il quorum necessario dei tre quinti (pari a 571 voti) per essere nominato e così ci sarà una nuova votazione mercoledì. Soprattutto, hanno mancato l’obiettivo i tre nomi proposti dal Partito del Nazareno, Augusto Barbera (in quota Pd; 545 voti), Giovanni Pitruzzella (Scelta Civica; 470) e Francesco Paolo Sisto (Forza Italia; 527). Su Pitruzzella, capo dell’Antitrust, pesa l’inchiesta nata nel 2008 su un lodo arbitrale tra l’Università di Catania e l’Università Kore di Enna. L’accusa è quella di corruzione in atti giudiziari; la procura ha chiesto l’archiviazione, ma il gip si oppone e la nuova udienza si terrà questo venerdì.
ARTICOLI CORRELATI Conquistare il Pd per conquistare l’Italia Renzi e l'impossibilità di guidare contemporaneamente un paese e un partito Sussulti nazarenici sui nomi per la Consulta, ma sarà una roulette Il premier Matteo Renzi non vuole rinunciare all’elezione in blocco della terna, tant’è che sia da Pd sia da Forza Italia era arrivato l’ordine, via sms, a votare compatti per i tre candidati, mentre il M5s dava disposizione di votare Franco Modugno e la Lega annunciava scheda bianca (idem Sel) “e Buscopan per alleviare i maldipancia della maggioranza”, parola di Roberto Calderoli (Lega). Non è mancato il “momento inquisizione” quando il deputato Danilo Toninelli del M5s s’è messo a contare i secondi dei parlamentari leghisti nella cabina di voto, per verificare l’assenza di tracce di accordi sottobanco. Dall’impasse sembra difficile uscire: da una parte c’è il M5s che con i suoi parlamentari mette veti ed è in grado di far mancare il quorum, dall’altra il centrodestra non è così compatto da garantire i voti che servono. Lo dimostrano le 18 preferenze di differenza fra Sisto, che è rimasto in Forza Italia e quindi non molto amato dai fittiani, e Barbera.
Il motivo dell’incaponimento del premier e del Pd è chiaro: fino alla bocciatura della riforma Fornero sulle pensioni, nessuno si era accorto che le nomine nella Consulta hanno un peso significativo. Un anno fa, il Pd riuscì a proporre ed eleggere Silvana Sciarra con i voti del M5s, ma fu proprio la costituzionalista, fiorentina d’adozione, a contribuire alla bocciatura della legge Fornero sui pensionamenti, aprendo scenari di voragine nei conti dello Stato italiano. Dopo quell’episodio, Renzi non vuole più rischiare. Anche perché entro l’anno la Consulta dovrà esprimere un parere preventivo sull’Italicum e il governo non può permettersi la stroncatura della legge elettorale. Gli sconosciuti dunque – cioè tutti quelli che non si sono già preventivamente esposti con dichiarazioni favorevoli o comunque non contrarie all’Italicum – non sono ben accetti, perché possono fare qualche scherzetto al Pd sulle riforme. Nel caso di quelli conosciuti, vale il principio del cuius regio, eius religio; ognuno degli schieramenti si sente padrone, quindi non disponibile a cedere quote di sovranità.
Dopo un anno e mezzo dunque il Parlamento non riesce a eleggere tre giudici mancanti della Consulta. Questo stallo, stigmatizzato da Mattarella già nell’ottobre scorso, potrebbe peraltro ripetersi nel caso dell’elezione del presidente della Repubblica, come osservano alcuni costituzionalisti, tra cui il presidente emerito della Corte Costituzionale Ugo de Siervo, ed esponenti della maggioranza come Giorgio Tonini, senatore e presidente della commissione Bilancio. La nuova riforma costituzionale prevede i tre quinti come quorum per l’elezione del capo dello stato. E come spiega Andrea Mazziotti, presidente della Commissione Affari Costituzionali alla Camera, chi vince al ballottaggio “al massimo, prende 340 parlamentari; per l’elezione del Presidente della Repubblica servono i tre quinti dei votanti, che, sommando Camera e Senato, fanno 438”. Quindi, per eleggere il presidente della Repubblica, chi ha vinto il premio di maggioranza “ha bisogno di tutti i senatori meno due: essendo il Senato eletto su base proporzionale, è impossibile che ciò succeda”. Senza un super accordo, il rischio è che il presidente della Camera faccia da supplente al capo dello Stato per molte fumate nere.
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