Aiuto, Renzi è diventato uguale alla “ditta”
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Cambia le regole in corsa, mette i bastoni tra le ruote agli avversari, disconosce le primarie che l'hanno consacrato leader. Zingales: «Non vedo una nuova classe dirigente, solo persone diverse e più giovani»
di David Allegranti 27 Novembre 2015 - Linkiesta
Il Pd ha costruito una delle sue tante narrazioni sul “mito fondativo” delle primarie. Il rito pubblico di selezione delle candidature contro gli oscuri caminetti in qualche stanza di partito. In alcuni casi si sono rivelate essere solo un plebiscito, tanto si sapeva già prima di cominciare chi avrebbe vinto. Ma in altre determinanti situazioni, invece, hanno svolto la loro funzione principale: far affermare gli outsider, come nel caso di Matteo Renzi, che nel 2009 vinse le primarie fiorentine contro il gruppo dirigente che gli era ostile. In quell’occasione, la segreteria del Pd, guidata da Veltroni, s’inventò una regola per mettergli i bastoni fra le ruote, una soglia scaccia-ballottaggio del 40 per cento, nella certezza che l’allora presidente della Provincia di Firenze non l’avrebbe mai superata, che ci sarebbe stato un secondo turno, magari fra lui e Lapo Pistelli e che a quel punto tutti gli altri candidati sconfitti si sarebbero coalizzati contro il “ragazzo”.
Questa settimana scopriamo, o meglio riscopriamo, visto che non è la prima volta, che il Pd a guida renziana è tentato di “cambiare le regole in corsa”, una frase usata in continuazione da Renzi e dai suoi nel 2009 contro il partito romano. Solo che stavolta le parti si sono rovesciate. «La proposta della segreteria, che sarà discussa nelle prossime settimane, prevede che chi è già stato sindaco non potrà candidarsi alle primarie», ha detto Debora Serracchiani in un’intervista a Repubblica, annunciando in sostanza una norma contro Antonio Bassolino, ex sindaco di Napoli che nel 2016 si vuole ricandidare e sfidare Luigi de Magistris. E giù polemiche, strepiti, accuse di colpi di Stato. Poi aggiustamenti, precisazioni, tutto congelato fino a gennaio, ma una volontà politica resta chiara: impedire a Bassolino e a Ignazio Marino di ripresentarsi a Napoli e Roma.
Ora, chissenefrega di Bassolino. Il punto non è proteggere l’ex sindaco di Napoli o difendere in ogni modo le primarie in quanto tali, anche se è bizzarro vedere come gli strumenti divengano poco utili o molto utili a seconda di chi guida il partito e non vuole farsi creare problemi da candidati competitivi, seppur datati. Il punto riguarda la classe dirigente del Pd diffusa sul territorio. Le Leopolde, che hanno avuto la funzione di essere una macchina scenografica di propaganda elettorale per il Capo, in cinque anni di attività non hanno prodotto sui territori un personale politico sufficientemente attrezzato. Come ha notato qualche settimana fa Luigi Zingales sul Foglio, «Quello che differenzia una nuova classe dirigente da una nuova élite, è la condivisione di una nuova e comune visione intellettuale e morale. In questo senso non vedo una nuova classe dirigente, ma semplicemente persone diverse e più giovani».
Proprio in questi giorni, il deputato Matteo Richetti, un tempo molto vicino a Renzi, ha scritto una lettera al segretario premier per affrontare la questione: «Quante persone che ci hanno accompagnato e sostenuto sono state lasciate sulla porta o addirittura fuori dal Pd? Quanta Leopolda è stata costretta ad una civica nel proprio paese perché il Pd si è chiuso a riccio dalla paura? E ti chiedo, non è anche un nostro problema? Ci sono ancora troppi potentati locali che resistono. Sia chiaro, le cose si conquistano, ma le contraddizioni sui territori hanno un peso anche sulla credibilità complessiva del Pd».
Richetti non lo dice, ma parla anche di se stesso. Nel 2011 era una sorta di numero due, anche se con Renzi i numeri due non funzionano (in realtà non esistono proprio; non sono concepiti). Poi è stato progressivamente messo da parte, “sulla porta”, appunto, infilzato dal giglio magico e congelato dalla magistratura con un’indagine per peculato (è stato assolto una settimana fa) che l’anno scorso gli costò la candidatura alle primarie dell’Emilia Romagna. Il Pd è, in molte zone d’Italia, soprattutto il Mezzogiorno, in mano ai micronotabili, per dirla ancora una volta con il politologo Mauro Calise. A Renzi tutto questo non importa. Almeno, non è importato granché finora, perché la leva del governo, anche quella meramente propagandistica, è sempre stata più forte per lui di quella del partito che opera sul territorio. Con la riforma del Senato si convince l’Europa (agli italiani frega molto meno), con gli ottanta euro del 2014 o i cinquecento ai neodiciottenni anni nel 2016 si convincono gli italiani.
@davidallegranti