Sanità, forbici o esami di coscienza?
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Tagliare si deve, ma senza dimenticare gli esempi virtuosi (citofonare Zaia)
di Maurizio Crippa | 24 Settembre 2015 ore 14:14 Foglio
C’è un esame molto utile, applicabile al decreto Lorenzin contro gli esami inutili, ma nessuno vuole farlo. Perché è un esame politico: dunque servirebbe a decidere che cosa si vuole fare. Il governatore del Veneto Luca Zaia, leghista, ha snocciolato alcuni numeri, servono da esempio. “In Veneto, senza tagliare una prestazione o un medicinale che sia uno, in poco tempo abbiamo ridotto la spesa farmaceutica di oltre 83 milioni di euro, attestandoci al 13,93 per cento del totale del fondo sanitario contro un tetto nazionale indicato dal governo al 14,85 per cento; abbiamo ridotto del 5 per cento gli acquisti di beni e servizi sanitari all’esterno”. Quando il governo, in estate, anticipò i contenuti del decreto sulla “appropriatezza prescrittiva”, il governatore della Lombardia Roberto Maroni, leghista, disse: “Tagliare 10 miliardi di euro alla Sanità senza applicare i costi standard significa dichiarare guerra alle regioni virtuose”. L’esame molto semplice (almeno sulla carta: sono anni che nessuno lo affronta) si chiama “costi standard della Sanità”. E’ un sistema nemmeno troppo complicato, a volerlo applicare: si tratta di fare in modo che tutte le regioni spendano in base al miglior costo possibile. Funzionerebbe, pure. Un recente studio di Confcommercio calcola che lo stato risparmierebbe 23 miliardi di euro l’anno, senza tagliare le pastiglie a chi ha il colesterolo un po’ alto e senza minacciare di sanzioni i medici che prescrivono un esame in più (piuttosto che uno in meno). Il Veneto (ma non è certo la sola regione virtuosa) dimostra che si può recuperare efficienza senza tagliare per forza in modo lineare, sistema che finisce per punire con i cattivi anche i buoni (più loro, di solito).
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C’è un altro esame molto utile che si potrebbe fare, ma non sembra che interessi farlo. Nemmeno alla Lega, forse. E’ l’esame di come saranno i nuovi poteri delle regioni – che governano la spesa sanitaria – dopo la riforma costituzionale. La riforma, che modifica anche il Titolo V sugli enti locali, a sua volta modificato disastrosamente nel 2001, di fatto toglie molte competenze, in fatto di spesa e tassazione autonoma alle regioni. Semplificando molto, significa che il cordone della borsa torna al centro, a Roma. Che non è in assoluto un male, ovviamente, ma a patto che poi il governo centrale imponga a tutte le regioni, a tutte le Asl, a tutti gli ospedali di adeguarsi agli standard di spesa più virtuosi. Segnali che ciò accadrà, al momento, dal governo non ne sono giunti. Bobo Maroni – che ha appena varato una riforma della sanità lombarda con l’obiettivo di meglio controllare la spesa – sul tema lancia da tempo allarmi solitari.
Roberto Calderoli, ex ministro della Semplificazione, leghista anche lui, sta conducendo una sua battaglia più folcloristica che destinata a buon esito contro la riforma costituzionale, con i suoi ormai famosi 82 milioni di emendamenti. Ma in quella massa lunare e lunatica di presunte o pretestuose modifiche, affonda tutto: della questione del Titolo V e del tema dei costi standard, non parla nessuno. Vuol dire, forse, essere già rassegnati (anche chi per ragione sociale sarebbe contro: Matteo Salvini di questi argomenti non parla quasi mai) al fatto che gli unici tagli sono quelli decisi dal ministro, e sono solo tagli punitivi, che non distinguono tra modelli virtuosi e aree di spreco. E un esame di coscienza?
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