L'utopismo di Bersani si è fermato a metà strada. E Renzi l'ha infilzato
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Dopo settimane di vivaci polemiche, a quanto pare, la minoranza si è accontentata della modifica che era già stata prospettata da Matteo Renzi
di Sergio Soave, Italia Oggi 23.9.2015
Il senso della battaglia della minoranza del Pd sulle forme di elezione dei senatori risulta incomprensibile ai più. Dopo settimane di vivaci polemiche, a quanto pare, la minoranza si è accontentata della modifica che era già stata prospettata da Matteo Renzi, non ha ottenuto una revisione del cruciale articolo 2, ma ora si vanta di aver «salvato la democrazia», che naturalmente non è mai stata in pericolo.
Probabilmente nei ragionamenti di Pier Luigi Bersani si è insinuata l'antica propensione a dare una lettura ideologica delle novità, un sorta di nuova visione dell'internazionale antagonista modellata su Syriza e sul nuovo segretario del Labour party, capace di ribaltare una lunga fase di subalternità della sinistra alla logica di mercato. In questo quadro utopistico forse ha anche accarezzato l'idea di provocare una secessione a sinistra, ma poi si è accorto di non avere né le forze né il coraggio per realizzarla. Così, come al solito, si è fermato a metà strada e Renzi, che è capace di cogliere l'attimo di debolezza dell'avversario, lo ha infilzato come un pollo. D'altra parte Bersani può trovare consenso alla sua visione ideologica passatista nelle nomenklature delle rappresentanze sociali, ma non arriva alla base, che se è arrabbiata si esprime nel consenso a Beppe Grillo (o anche a Matteo Salvini) che, per quanto in modo rudimentale, presentano delle prospettive più pragmatiche e più rivolte al futuro, seppure con tratti irrazionalmente antieuropei.
Bersani, che come antagonista e anticapitalista non è credibile, evoca pericoli autoritari per dare uno sfondo nobilitante a quella che è in sostanza una battaglia di retroguardia per la restaurazione di un sistema politico basato sulle correnti di partito. Questo sistema, che ha funzionato in Italia per decenni a causa dell'egemonia di una formazione composita e interclassista come la Dc, viene travolto dalla democrazia dell'alternanza, che si basa sulla competizione tra leadership. Paradossalmente diventerebbe ragionevole la pretesa bersaniana solo se avesse successo stabile l'idea di Renzi di trasformare il Pd nel «partito della nazione», cioè in una formazione inamovibile dal governo come fu la Dc e che quindi trasferisce al suo interno i riflessi della dialettica politica e sociale del paese. Oggi come oggi, con un sistema politico ancora basato sull'alternanza (nonostante l'eclissi che non sarà però eterna di una alternativa moderata competitiva), il predominio della lotta o della pattuizione tra correnti nella vita interna del partito di maggioranza diventa solo un fastidioso ostacolo alle ambizioni (o alle illusioni) riformatrici e Renzi non fatica a prevalere sistematicamente su una dissidenza arrogante ma paurosa.
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