La politica bestiale
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Insultare stanca, e rende poco. Perché non si può lasciar correre l'infortunio lessicale di Renzi
di Redazione | 07 Settembre 2015 ore 14:31Foglio
Nel comizio conclusivo della festa dell’Unità di Milano, Matteo Renzi aveva l’obiettivo di conquistare la piazza, anche per dimostrare ai suoi oppositori interni che “la base" è con lui, come ha poi dichiarato con soddisfazione. A questo obiettivo, del tutto comprensibile, ha però sacrificato una delle sue caratteristiche, il rifiuto di costruire la politica del centrosinistra sulla demonizzazione degli avversari di centrodestra, che aveva segnato il suo stile, innovando profondamente nel modo di fare tradizionale del suo partito.
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Aver definito “bestie” le persone che si oppongono alla politica dell’accoglienza (spesso assai confusa peraltro) praticata nei confronti dell’ondata migratoria è peggio di una caduta di stile. E’ un cedimento grave al richiamo della foresta del muro contro muro, dell’incompatibilità “antropologica” tra i sostenitori di posizioni diverse. Chi governa ha il dovere di puntare al massimo di unità, di esprimere una propria visione dell’interesse nazionale che, appunto perché è tale, supera il confine delle appartenenze politiche.
Renzi finora si era mosso sostanzialmente su questa linea di condotta, rifiutando di considerare alcune tematiche tabù perché erano state affrontate dai governi guidati da Silvio Berlusconi, dal superamento del bicameralismo perfetto alla abolizione della tassa sulla prima casa. Ora invece parla di una contrapposizione tra umanità, appannaggio della sinistra, e le bestie che albergano nella destra. Tra l’altro, scendendo sul terreno dell’insulto sanguinoso, finisce con il fornire argomenti polemici proprio ai suoi avversari, che proprio su quel terreno si erano isolati e ora possono reagire trovando consenso anche tra chi non condivide le posizioni più oltranziste ma non tollera questa degradazione improvvisa e improvvida del livello della dialettica politica.
C’è da sperare che si tratti di un episodio isolato, dell’effetto ubriacante del palco su cui si erano esibiti i grandi dirigenti del Pci, della ricerca esasperata dell’applauso anche a costo di negare alla radice il carattere inclusivo e dialogante della propria azione politica. E’ un peccato, perché quella invettiva sbagliata ha finito col mettere in secondo piano tutto il resto del discorso, che puntava a far prevalere i temi e i problemi di dimensione nazionale e internazionale sulle beghe interne di partito, attraverso un ragionamento condotto con linearità ed efficacia. Ma se non saranno rapidamente superate le conseguenze di quella ricaduta nel complesso di superiorità ingiustificata, anche le considerazioni sensate e l'assunzione sincera di responsabilità nazionale saranno inevitabilmente declassate a espedienti retorici al servizio di una affermazione solitaria di autosufficienza arrogante.
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