Lavorare stanca
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In tutto il mondo non si sfugge al principio: le cattedre sono lì dove sono gli alunni. Ma in un’Italia allergica alla mobilità, al momento d’assumere i precari si urla alla “deportazione”. La situazione è grave, ma non seria
di Mario Sechi | 18 Agosto 2015 ore 19:30 Foglio
Una regola di Wall Street dice che i soldi si fanno dove ci sono soldi e il lavoro si trova dove c’è lavoro. Perfetto, perché il denaro non dorme mai e Gordon Gekko è la bussola. Un cappero, Sechi, perché poi ti passa sotto il naso la prima pagina di Repubblica e leggi la lettera di un’insegnante precaria che rinuncia al posto perché deve allontanarsi da casa. Puf! La legge della domanda (di cattedre) e dell’offerta (di insegnanti) in Italia svanisce di fronte alle riforme (buone e cattive), ai sindacati (vecchi e nuovi), ai governi (di destra, di sinistra, di centro, di sopra, di sotto e di sottosopra). La riforma della Buona scuola del governo Renzi ha parecchi difetti, ma un peccato originalissimo: l’infornata di centomila precari. Il Foglio l’aveva avvisato, il premier, Matteo non fare così, pensaci. E invece lui l’ha fatto. E quando parti con il piede sbagliato, finisci per continuare a inciampare. Un principio però mi sembra intangibile: l’insegnante va dove serve, dove ci sono cattedre disponibili, non è il lavoro che insegue il docente, ma è il docente che si sposta dove c’è lavoro. Elementare Watson, scriverebbe Conan Doyle. Peccato che il positivismo scientifico di Sherlock Holmes in Italia non funzioni. Quando il governo è passato dalle parole ai fatti (ogni tanto, capita) e cioè alle assunzioni, gli insegnanti precari hanno scoperto che la cattedra non li inseguirà più. Per alcuni, è stata una grande sorpresa apprendere che così va il mondo. Quindicimila insegnanti dovranno fare le valigie e trasferirsi. Le cattedre sono al nord, i professori sono al sud. Non essendo possibile trasferire gli alunni dal settentrione al meridione (isole comprese), pare proprio che la faccenda sia ineludibile e si debba procedere con quella che gli animi più gentili hanno chiamato “deportazione”. La rotativa del giornalismo collettivo ha montato la panna e, d’altronde, c’è una sintonia storica tra chi scrive articoli e chi detta compiti in classe: provate a trasferire un giornalista non dico dalla sede, ma dalla sua scrivania. I risultati – in entrambi i campi – parlano da soli.
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L’Italia è un paese agli ultimi posti nella classifica della mobilità sociale perché non c’è mobilità tout court, in particolare nella scuola. Il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, lo ha ricordato in un passaggio di un suo intervento del 2014 dedicato al capitale umano: “L’anomalia italiana può essere ricondotta a vari fattori che richiedono politiche coordinate che agiscano su molteplici fronti. E’ sicuramente importante accrescere la qualità del capitale umano da cui possono attingere le imprese, rendendo il sistema di istruzione scolastica e universitaria più efficiente, più attrattivo anche per studenti e ricercatori stranieri, più differenziato e specializzato al suo interno, con una maggiore mobilità geografica di docenti e studenti”. Mobilità geografica è “deportazione”?
La situazione è grave ma non seria. E la verità è che si conferma la regola che in Italia ciò che è provvisorio (i precari) diventa permanente e alla fine della fiera l’età media dei nostri insegnanti è di 51 anni – la più alta in Europa – e molti precari nel frattempo si sono “stabilizzati”, all’italiana: contratto (provvisorio) dopo contratto, hanno messo su famiglia, acceso un mutuo, piantato radici. L’instabilità con un centro di gravità permanente. A un certo punto l’Unione europea ha fatto toc toc alla porta del governo e ha detto: basta con il guazzabuglio, li dovete assumere. Perfetto, allora vanno dove ci sono i posti disponibili. Al nord, boys and girls. La prossima puntata? E’ già scritta. Prima o poi al nord qualcuno dirà che c’è l’invasione degli insegnanti “terroni” e al sud si aprirà un bel dibattito sulla “questione meridionale”. Altrettanto rapidamente il governo metterà su la classica “pezza” per ridurre al minimo gli spostamenti. Il tam tam è partito, si attende un (quasi) fermi tutti – anch’esso provvisorio, naturalmente – quando il Parlamento discuterà la Legge di Stabilità. Ah, che nome profetico.
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