Ecco perché il sud ha bisogno di più diritto, e quindi di “meno Stato”

Il meridione non ha bisogno di essere ancora più statizzato o di subire una qualche “italianizzazione” artificiosa

di Carlo Lottieri | 17 Agosto 2015 ore 06:18

Nel suo ultimo intervento sul Corriere della Sera lo storico Ernesto Galli della Loggia polemizza con quanti – anche nel governo – ritengono che la questione del Mezzogiorno sia figlia dello Stato moderno e della sua presenza asfissiante, tentacolare, corruttiva. Al contrario, per Galli della Loggia sarebbe importante che la classe politica meridionale chiedesse “sì più spesa pubblica, ma anche un’azione sempre più energica delle forze dell’ordine, un controllo sempre più incisivo da parte degli organi dello Stato sulla vita sociale delle loro contrade, contro quelli di loro, e Dio sa quanti sono, i quali pensano e agiscono in modo ben diverso”.

Un sud povero e avvelenato dalla criminalità avrebbe insomma bisogno non soltanto di ulteriori finanziamenti, ma soprattutto di una crescente presenza dello Stato: di un’azione esterna che sia in grado di traghettare verso la civiltà questa società estranea ai valori della nazione e della statualità moderna.

E’ assai difficile concordare con questa analisi e non solo perché il Mezzogiorno di tutto ha bisogno meno che di altra spesa pubblica. Non solo perché esso non cresce in quanto oggetto di un intervento ininterrotto che ha cambiato forma nei decenni, ma non ha smesso di fare danni, così che in prima battuta è proprio necessario frenare la spesa pubblica.

Oltre a ciò, e più in profondità, non convince questa visione di un Mezzogiorno sempre bisognoso essere commissariato.

Gli argomenti di Galli della Loggia paiono ragionevoli quando invocano più poliziotti e meno mafie, più legalità e meno corruzione. Nessuno può negare come l’esistenza sia difficile, e non solo sul piano economico, in un quadro dominato dalle organizzazioni criminali, ma c’è da chiedersi se accrescere il potere dello Stato sia la strada migliore per fondare una società di diritto, dato che tale maniera di ragionare continua a ignorare che la vera rete dei rapporti giuridici nasce dalla vita sociale e dai rapporti interpersonali.

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Il diritto non è un semplice prodotto del potere statale, nemmeno in un’epoca – come la nostra – durante la quale l’intero ordinamento giuridico sembra sempre più identificarsi con la legislazione (con le leggi “prodotte” dai parlamenti). Infatti, nel nostro tempo è sempre minore lo spazio riservato alla giurisprudenza, alla dottrina e ad altre forme evolutive di formazione del diritto.

Nonostante ciò, pure nell’Europa continentale contemporanea dei codici e della legislazione onnipresente il diritto è lettera morta se non compenetra i comportamenti dei consociati. E un diritto degno di questo nome può svilupparsi solo in un contesto di libertà: in un quadro in cui abbiamo soggetti che interagiscano e contrattano a partire da titoli che sono reciprocamente riconosciuti. Quando Bruno Leoni sviluppò la sua teoria della pretesa individuale e sostenne che ogni ordinamento è sempre il frutto di un’ampia negoziazione sociale (Tizio non vuole essere aggredito e Caio lo stesso, e questo li conduce a escludere l’aggressione…), egli volle sottolineare come prima delle norme abbiamo le azioni dei singoli, le intenzioni che le animano, la cultura che le permea.

Quando si domanda allo Stato di esercitare un ancor più ampio controllo sulla vita sociale, in definitiva si chiede a una cultura estranea d’impedire l’emergere di un diritto in sintonia con le pratiche sociali diffuse. Non solo si chiede una sorta di tutela paternalistica a protezione della società meridionale, ma in questo modo s’impedisce che in quell’universo vengano alla luce le vere pretese e di conseguenza norme realmente condivise.

Il sud ha bisogno di più diritto, e non di più Stato. E oggi è privo di un diritto degno di essere detto tale proprio perché l’azione di uno Stato giunto in queste regioni al seguito dell’esercito piemontese ha creato una tensione mai risolta tra le istituzioni e la comunità. Il sud ha certamente bisogno di più diritto, per ottenere tutto ciò vi è bisogno di un’economia libera (privata) e di una società civile che riesce a crescere e a esprimere le proprie potenzialità. Questo però non è facile quando quasi ogni cosa sembra dipendere dagli apparati della politica, della burocrazia e dal malaffare: e gli intrecci fra i tre ambiti li conosciamo da tempo.

Gianfranco Miglio scrisse pagine illuminanti sul tema quando oppose una visione “fredda” (astratta, impersonale, statocentrica) del diritto e una invece “calda” (concreta, personale, e focalizzata sulle relazioni comunitarie). Il sud ha una cultura che sarebbe più in sintonia con un diritto del secondo tipo, ma ha sempre visto calare dall’altro apparati estranei che hanno pervertito la stessa logica dei rapporti familiari e comunitari. La mafia contemporanea dei finanziamenti, delle autorizzazioni e della spesa pubblica è essenzialmente il frutto malato di questo incontro perverso.

Al sud non vi è allora la necessità di altro Stato e altri aiuti, ma ha invece bisogno di vere logiche di autogoverno, anche perché è chiaro che i Crocetta, i De Magistris e gli Emiliano devono andare a chiedere ai propri amministrati i soldi che intendono spendere. La regola, purtroppo oggi assai condivisa (al sud e non solo), secondo cui molti possono vivere grazie alla redistribuzione politica e alla lottizzazione delle risorse pubbliche non potrebbe resistere a lungo entro un contesto di autogoverni locali.

Le popolazioni meridionali devono sapere che ogni spesa fatta da questo o quel demagogo è figlia di denaro tolto alla busta-paga di impiegati e operai, ai profitti di imprenditori e professionisti, ai risparmi dei pensionati. Fin che il denaro arriva come manna dal cielo la spesa facile e improduttiva non trova argini e può servire a controllare ogni cosa. Se invece si avvicinano il prelievo e la spesa, quella che si viene a creare è una forte resistenza dinanzi al malgoverno: la sola strada per avere un Mezzogiorno migliore.

Il sud è abitato da adulti, e non da bambini. Ha tutte le possibilità per amministrarsi da sé, costruire imprese e iniziative di successo, individuare regole e ordinamenti adeguati. Non ha bisogno di essere ancora più statizzato o di subire una qualche “italianizzazione” artificiosa. Ha bisogno solo di quella libertà e di quella responsabilità che lo possono aiutare a trovare se stesso

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