Napolitano riformista incompreso
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La Ditta lo misconosce. Per i renziani è uno di loro. La verità è altrove
di Salvatore Merlo | 12 Agosto 2015 Foglio
Roma. Adesso i vecchi compagni gli danno del renziano, o qualcosa del genere, mentre i ragazzi del governo della via Pal quasi sono pronti a spedirgli la tessera del giglio magico, cosa che fa un po’ sorridere quelli che Giorgio Napolitano lo conoscono davvero. “Diciamo che, per la verità, Renzi non gli è mai stato particolarmente simpatico”, confessa Stefano Ceccanti. E Pasquale Cascella, che è stato suo portavoce per tanti anni al Quirinale: “Mettiamola così, difficilmente sono immaginabili due antropologie più diverse”. E chissà se la caricatura di un Napolitano renzista disegnata ieri, tra gli altri, anche da Renato Brunetta, fa sorridere pure Renzi, il quale ricorda ancora con insofferenza – chiedere al generale Adinolfi – l’impenetrabile pedanteria dell’ex presidente che lui considerava un complicato “ostacolo” verso Palazzo Chigi, quel presidente che quando Renzi si presentò nel fasto del salone degli Specchi con un abbagliante abito color ghiaccio, anche lì, nel tono di una didattica pazienza, non poté far a meno di notare quello stridore moccioso fra tante grisaglie e gessati. Il protocollo, il codice istituzionale, il ragionamento politico. Certe volte a Renzi doveva sembrare di essere ancora a scuola, davanti alla maestra che si accaniva a coglierlo in fallo. Ma è come se il conflitto, nel Pd, avesse creato un’atmosfera rarefatta che ottunde ogni giudizio, e per la sinistra Renzi è un vivente rimprovero a Napolitano.
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Lui è tornato a giocare il gioco parlamentare, come tanti anni fa, e con il suo linguaggio, che non corrisponde alla brutalità dei tempi, ma è un rigido geometrizzarsi che richiede un po’ di grammatica politica per essere compreso, si è offerto come “punto di equilibrio”, forse persino come mediatore, tra la maggioranza e la minoranza del Pd, “tutto purché si facciano le riforme”, come suggerisce anche Cascella. Ma Napolitano, dopo una lettera al Corriere e una a Repubblica, ieri, si è ritrovato coinvolto in una rissosa partita a ping pong, un gioco di rancori e omissioni tra vecchi e nuovi dirigenti, tra refoli scissionisti e vento da resa dei conti, in cui l’ex presidente adesso deve avere l’impressione di essere la stranita pallina. L’entusiasmo renziano, da una parte, i cori e le critiche della sinistra interna, dall’altra: D’Attorre, Mucchetti, tutti contro, persino Rosy Bindi: “Proprio perché Napolitano conosce il peso delle parole dovrebbe evitare di schierarsi. Non condivido il merito ma neppure il metodo”.
E s’intuisce allora la dimensione del cortocircuito tra umori e retropensieri, ambizioni e rancori, tattica e controtattica che infiamma il Pd, in cui ciascuno alimenta il proprio risentimento aggiungendo sempre nuovi motivi, così come si carica una stufa. “Gli rimproverano di non aver dato l’incarico a Bersani nel 2013, come se fosse stato possibile farlo presidente del Consiglio senza maggioranza”, dice Ceccanti. “E gli rimproverano anche la caduta di Letta, come se in realtà non avessero chiesto anche loro che Letta si facesse da parte nel corso di una direzione in cui parlò Cuperlo, come se insomma D’Alema non avesse coltivato esplicitamente il disegno di dare Palazzo Chigi a Renzi per farlo poi dimettere dalla segreteria e riprendersi così il partito per giocare lo stesso schema di sempre, come con Prodi”. Un conflitto dissipato, ma non per questo meno pericoloso, che adesso finisce per coinvolgere nella baruffa, suo malgrado, l’ex presidente della Repubblica, lui che creò Monti, benedisse Letta, assecondò Renzi, cioè un altro presidente del Consiglio da incaricare e guidare, nel marasma, verso un approdo di stabilità e di ordine istituzionale, un altro “fatto” della politica, da gestire e trattare con il distacco protocollare delle regole repubblicane e parlamentari.
E così nella mente della sinistra, Napolitano assume i tratti del traditore da melodramma, mentre nella logica mai sfumata della corte renziana l’ex presidente è improvvisamente “uno dei nostri”. Quando lui, testa ordinata un po’ scolasticamente e linearmente, cerca soltanto che i dati della sgangherata politica italiana quadrino tra loro: dal 1992, dai tempi della prima Bicamerale Iotti-De Mita, Napolitano lavora per le riforme costituzionali, e oggi, malgrado Renzi non sia precisamente il suo modello di stile, continua a lavorare per le riforme incompiute e promesse trent’anni fa. Quando però solleva lo sguardo, di fronte a sé Napolitano riconosce soltanto una capitale incoerenza, personaggi storti. Voleva proporre una mediazione, e lo hanno scambiato per uno di loro, un altro tifoso da curva politica.
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